La consistenza di un pensiero si avverte in quei tratti dove tutto appare sul punto di lacerarsi e scomparire. Là si mostra qualcosa di non immediatamente riconoscibile, di estraneo quasi, animato tuttavia da una sua caparbietà e insistenza. Non si sa più dove si è, e si avanza. Un niente separa il fallimento dalla riuscita.

Per Jean-Luc Nancy uno di questi concetti estremi era quello di «arealità». Da una parte questo termine indica una mancanza di realtà, che tuttavia non può essere pensata semplicemente come un’assenza; dall’altra, esso sottolinea la «natura di area», appunto, che «sopraggiunge» a un corpo o allo stesso soggetto non più sostenuti da alcuna sostanza, ossia uno spazio o un’estensione che precede ogni spazialità.

Così, l’arealità – come scrive in Corpus – è lo scarto che «localizza un corpo» o, anche, ciò che localizza «in un corpo». In altri termini: di un corpo, non il suo essere esteso, quanto piuttosto ciò che viene prima dell’estensione; del soggetto, non ciò che soggiace ma il senza-fondo della sua sostanza. Insomma, l’arealità è un «luogo inassegnabile» e perciò al limite della pensabilità. Ciò che si sottrae nel darsi dei corpi e ciò che si annuncia e si enuncia come soggetto, ritraendosi nel momento stesso della sua esposizione. L’arealità non è niente, ma nemmeno qualcosa. Manca di realtà, ma non completamente. Tutto qui si assottiglia, senza scomparire. È questo il luogo di un «pensiero finito», vale a dire di un pensiero che si misura con la vertigine che attraversa l’esistere, sospeso all’«assenza di fondamento» di cui parlava Heidegger.

Ora, se c’è una cifra che caratterizza l’opera di Nancy è questa acuta percezione dell’abisso, accompagnata tuttavia dal gusto e dalla gioia del danzare, dell’avvicinarsi dei corpi su una scena, e dunque del farsi ogni volta del senso al cuore di tale abisso. Pensare, infatti, è pesare, come spesso ricordava riferendosi all’etimo latino del termine. Dalle sue pagine emerge una sensazione insieme di esattezza e di leggero sovvertimento. D’altronde, la sua lettura della negatività hegeliana va esattamente in questa direzione: non l’esaltazione mortifera dell’astratto e del fittizio, ma ciò che fa tremare ogni determinatezza, vale a dire il brivido, l’agitazione inquieta che percorre e libera ogni essere a sé, di modo che un corpo tra altri corpi sia già «una liberazione per l’altro e per l’infinito».

Il suo non è un pensiero tragico, né tantomeno disilluso o rassegnato, perché animato da una spinta, da una curiosità e dalla sorpresa di fronte al dispiegarsi e al fiorire delle cose – è una filosofia dell’Aperto, in senso hölderliniano. Del resto, uno dei concetti su cui più ha insistito è stato quello di creazione – creatio ex nihilo, certo, ma senza più creatore (sarà questo uno dei punti cardine della «decostruzione del cristianesimo»). Creazione, dunque, intesa come niente di principio, niente di ragione, ma senza che il niente a sua volta sostituisca il principio o la ragione (sarebbe ancora nichilismo). A rimanere non è «nient’altro che ciò che cresce senza principio di crescita». Così, la questione dell’origine del mondo è sempre la singolare molteplicità delle origini: a ogni piega esclusiva locale-istantanea, vale a dire a ogni singolarità, sorge ogni volta il mondo. Ricevendo singolarità (entrando in contatto gli uni con gli altri), noi riceviamo il «passaggio discreto di altre origini del mondo». L’origine, l’insorgere o il venire di nulla (che non si dà se non nell’esser-ci-già) qualificano, dunque, l’ex proprio della creazione-in-atto che è l’esistenza stessa. Il nihil è posto e, nel contempo, svuotato di ogni principialità.

Nancy nomina questo movimento con termini diversi: posizione di nulla e di nessuno (la Setzung kantiana), l’ac-cadere delle cose o, ancora, la loro esposizione. Attraverso una fine lettura di Bataille, e in dialogo con Blanchot, Nancy parla di comunità degli esseri finiti, e dunque di comunità della finitezza (perché solo la finitezza «è» comunitaria), la quale non è un’opera da produrre, ma l’esposizione delle esistenze singolari costituite (distribuite, spaziate) attraverso la partizione e rese così reciprocamente altre. Nessuna fusione, quanto piuttosto passaggio da una singolarità all’altra, da cui gli esseri singolari vengono definiti ed esposti tramite la loro stessa dislocazione. A passare, infatti, non è nient’altro se non la comunicazione della finitezza e dunque, ancora una volta, la partizione lasciata incompiuta dalla comunità «inoperosa». L’essere-con, allora, è al di qua di qualunque progetto, tentativo o volontà e il suo significato sta in una «socialità originaria o ontologica» fatta della comparizione delle singolarità.

Se la comunità non si può perdere (perché «noi non possiamo non com-parire»), il mondo resta comunque fragile, la sua pelle sottilissima – i corpi hanno luogo sempre al limite e in quanto essi stessi sono dei limiti. Per questo occorre lottare perché ogni volta «un mondo affiori da nulla» – e ciò è «il contrario di una globale ingiustizia imposta dall’equivalenza generale».
Da qui, la grande riflessione sul tatto, sul toccare – come comprese Derrida. L’intatto implicato in ogni toccare. Senza un intatto – senza lasciar essere un intatto, cioè –, il toccare non è che negazione, distruzione. Nancy parla di sincope – del «toccare senza toccare» –, e il discorso si allarga alle arti, a tutte le arti, perché la sua sarà stata soprattutto una filosofia del sensibile e del senso con una capacità di lettura, consonanza ed empatia prodigiose.

Del resto, verrebbe da chiedersi: quale mondo senza Jean-Luc Nancy? Il mondo era la sua passione. Questo mondo insieme splendido e terribile, l’ha vissuto e pensato con la lucidità di chi sa che non ce n’è altri. Perché il mondo è già da sempre una tenuta, un «tenersi» e dunque un êthos. Esso tiene, si tiene a sé e in sé e non rinvia a nient’altro che a sé senza aderenza alcuna. Ma un mondo più desolato, ora.