Già oltre 50 anni fa, guidato da sensibilità artistica e fine intelletto, Pier Paolo Pasolini proponeva la necessità di distinguere tra progresso e sviluppo. Lo seguirono poco dopo gli scienziati del Club di Roma, mostrando per la prima volta al mondo i limiti del dogma della crescita economica.

Passato un quarto di secolo, Wolfgang Sachs e il Wuppertal Institute rappresentarono al meglio tutte le interazioni tra mercati, scelte degli stati, stili di vita individuali e i loro effetti in termini di carico sulle risorse naturali, di impronta ecologica, di conseguenze sociali ed economiche. In tanti poi, studiosi, attivisti, divulgatori, di diverse discipline, hanno fornito il loro contributo: da Herman Daily a Lester Brown, da Vandana Shiva a Saskia Sassen, per citarne alcuni.

Cinque decenni di un messaggio chiaro: occorre ridefinire il modello estrattivo di produzione e scambio per impostarne uno rigenerativo, equilibrato, giusto nel presente e nel futuro, verso le prossime generazioni.

Ed eccoci nel 2021 a commentare la nascita del ministero alla transizione ecologica. Una buona notizia, giunta con grave ritardo. Molto è compromesso, certamente ancora tanto si può fare. Nel mondo, in Europa e in Italia. Occorre un cambio di passo, nella visione e nelle azioni. La questione ambientale non esiste – e non è risolvibile – se non associata a quella della giustizia economica tra e dentro le società e i sistemi produttivi.

Ha detto Mario Draghi nel suo discorso programmatico al Senato: «La risposta della politica economica al cambiamento climatico e alla pandemia dovrà essere una combinazione di politiche strutturali che facilitino l’innovazione, di politiche finanziarie che facilitino l’accesso delle imprese capaci di crescere al capitale e al credito e di politiche monetarie e fiscali espansive che agevolino gli investimenti e creino domanda per le nuove attività sostenibili che sono state create».

Vago. Non è più tempo dell’ambientalismo consolatorio, di ciò che Tonino Perna a fini anni ‘90 definiva come «deriva new age» del consumo responsabile, o del greenwashing di grandi o piccole corporation. Non è più tempo, perché non c’è più tempo. Non ci si può accontentare di programmi che non affrontino in modo esplicito alcune questioni centrali, con gli strumenti più efficaci a disposizione, come ad esempio l’introduzione di una vera carbon tax, finalizzata a scoraggiare le emissioni di Co2 e il consumo di quei prodotti che ne abusano.

E sì perché alla base di tutto c’è una semplice e cruda questione, la corretta prezzatura di merci e servizi: finché le imprese potranno scaricare su collettività e capitale naturale i costi occulti di produzione e distribuzione, dall’inquinamento al lavoro nero, il sistema economico sarà in disequilibrio, cioè ingiusto, predatorio. Chi ha studiato con Federico Caffè, come Draghi, queste cose le sa bene. Il tema è come usare il potere regolatorio degli stati, e le loro risorse, per fare quelle azioni di riequilibrio che il mercato capitalista non sa e non può fare in autonomia.

Oggi le principali risorse finanziarie sono sui governi, con un livello record del debito pubblico mondiale, mentre il credito alle imprese e all’economia reale è in calo da almeno dieci anni. Ne consegue che solo i governi possono spostare gli equilibri: disincentivando ciò che non va e promuovendo le alternative, attraverso l’immissione di grandi risorse finanziarie e la programmazione di attività pluriennali. Serve una decisa azione pubblica di indirizzo dell’economia, un inedito per gli ultimi trent’anni.

Non ci si può infatti illudere col recente maquillage della finanza privata che auto-celebra la propria sostenibilità: cinica sintesi di tutte le contraddizioni del mercato capitalista, non è da essa che potrà giungere un reale cambiamento.

Nel 2011, chi ascoltò con speranza Mario Monti annunciare una tobin tax per riequilibrare le storture della finanza, dovette poi gestire la delusione di un intervento solo di facciata, privo di visione e determinazione.

Ora, Mario Draghi ha l’occasione di sorprenderci in positivo. Non l’ha annunciata, sarebbe bello trovarci presto a commentare la sua carbon tax. Allora sì, sarebbero da prendere sul serio le parole con cui ha chiesto la fiducia al Parlamento: «Vogliamo lasciare un buon pianeta, non solo una buona moneta».

 

* Direttore Generale di Banca Etica