Il Sud Sudan, nella retorica dell’Occidente, era la «naturale» soluzione dell’enigma sanguinoso di quell’immensa landa tratteggiata dai colonizzatori chiamata Sudan. Un futuro radioso attendeva la nuova nazione. Il suo sottosuolo, ai confini con il Nord antico oppressore, ribolliva di oro nero. Una quantità spaventosa di petrolio e gas, ancora soggetta agli oleodotti con cui il Nord, in combutta con la Cina, aveva per anni derubato i legittimi proprietari delle loro ricchezze. Grazie agli amici occidentali, soprattutto agli americani che tanto si erano spesi perchè il Sud vincesse e divenisse stato, se ne sarebbero costruiti di nuovi ed alternativi. Il Sud Sudan era potenzialmente un nuovo west. Non a caso il suo novello presidente, Salva Kir, si presentava con un enorme cappello texano. La tragedia del Sudan è sempre stata il piscio puzzolente del diavolo, cioé il petrolio ed il gas di ottima qualità e facile estraibilità ivi presente. La sua scoperta negli anni settanta, ad opera di una delle più potenti multinazionali americane del settore, segna l’inizio di un dramma che sembra non aver mai fine. Quando Khartoum sceglie la Cina come suo cliente principe, si scatena l’inferno. Al sud nascono gruppi armati di tutto punto, l’Spla, ed è guerra. Infinita.

La gente del sud recrimina sull’uso dei proventi di quell’inaspettata ricchezza. E su quella giusta rivendicazione si inseriscono logiche, appetiti ed interessi senza scrupoli. Nessuno gioca alla pace, tutti preferiscono la guerra. L’Spla viene rifornito, da americani ed inglesi, di ogni strumento di morte. La Cina farà altrettanto con il governo e l’esercito del nord. Almeno due milioni di vittime in più di un decennio di guerra. Poi la «pace» e con essa la promessa di un referendum che permetta al sud di scegliere se restare, con maggiore peso e relativa autonomia, nel Sudan o ergersi come nuovo stato. Era però già tutto deciso. Le nuove strade, ogni infrastruttura, realizzate, anche dalle agenzie dell’Onu, guardano ai paesi confinanti, come il Kenia che guarda caso sarà il paese per il quale passerà il nuovo oleodotto alternativo a quelli di Khartoum. Al referendum l’idea della secessione raccoglie un’ovvia e totale adesione. Le finanze della nuova nazione saranno forti degli investimenti occidentali e americani e dei proventi del petrolio i cui maggiori giacimenti ricadono nei suoi confini. Per alcuni anni ancora il Sud Sudan dovrà pagare a Khartoum tasse per il trasporto via oleodotto del suo greggio. Poi, ci sarà un altro oleodotto, nuovo di zecca, a farlo. Finalmente liberi. Ed invece sono solo le basi di una annunciata tragedia.

Al potere in Sud Sudan va un vorace gruppetto di signori della guerra. Salva Kir e il suo vice Machar hanno le mani lorde di sangue. Kir è un dinka, la principale etnia del paese, Machar è un nuer. Già in passato si sono scontrati. Machar è responsabile di un eccidio di dinka. Decine di migliaia di morti, distruzioni, migliaia di giovani donne stuprate. Kir ha riservato lo stesso trattamento alle genti nuer. Nessuno li ha mai processati. Sono nostri «amici». Hanno la moneta giusta per pagare il silenzio dell’Occidente. Il piscio del diavolo.

Il Nord Sudan, a sua volta, vive l’incubo della perdita quasi totale dell’unica ricchezza capace di riempire i suoi forzieri. La costruzione di un oleodotto alternativo ai suoi è una minaccia a mano armata al suo destino. La Cina vede minacciati i suoi approvvigionamenti. I petrolieri americani sono gli unici a gongolare. Nessuno lavora per la pace, tutti, nei fatti, per la guerra. E guerra è. Dopo il bagno di sangue, forse, si arriverà ad una trattativa, con il paese diviso in due. La storia del Sud Sudan, la più giovane nazione del mondo, probabilmente, è già finita.