Dieci anni fa, dopo la morte il 27 ottobre di Zyed e Bouna, due giovani fulminati in una centralina elettrica a Clichy-sous-Bois dove si erano rifugiati per paura della polizia, per tre settimane le banlieues francesi sono state in rivolta.

Dieci anni dopo, nel 2015 iniziato con gli attentati a Charlie-Hebdo e all’Hyper Cacher, qual è la situazione? Lo chiediamo al sociologo Fabien Truong, autore di studi sul campo, tra cui Des capuches et des hommes (Buchet, 2013) e Jeunesses françaises, Bac +5 made in banlieue (La Découverte, 2015), professore all’università di Paris VIII dopo essere stato a lungo insegnante di liceo in cittadine della periferia parigina.

2005-2015, la Francia non è più la stessa. Cosa è cambiato nelle banlieues?

Dieci anni dopo, non sono cambiate le condizioni di vita economica e sociale nei quartieri di periferia. La disoccupazione, il precariato mostrano che la situazione generale non è migliorata e che sussistono ragioni profonde di un sentimento di rivolta in una parte della popolazione. Invece, è cambiato lo sguardo che la popolazione che non abita questi quartieri porta sui giovani e gli abitanti delle banlieues. Questo sguardo è peggiorato. Nel 2005 sono circolate immagini sensazionali, che hanno fatto il giro del mondo, con auto bruciate, nella notte. Ne è seguita una stigmatizzazione che ha modellato l’inconscio collettivo, non solo in Francia. In più, dieci anni dopo a queste immagini si è aggiunta la questione religiosa, la veloce sequenza tra rivolta-Charlie-Hebdo-Daech, la stigmatizzazione dell’islam e degli abitanti delle banlieues, identificati al loro tasso di melanina. I media giocano su queste immagini per captare l’angoscia.

Secondo lei l’identità delle banlieues è quindi imposta dall’alto?

La morte di Zyad e Bouna è legata alla paura reale dei giovani, che subiscono controlli di polizia quotidiani, vittime di una presunzione di colpevolezza e scappano di fronte agli agenti. La reazione è stata una vera rivolta. Dai miei studi sul campo, dove ho seguito dal 2005 a oggi le traiettorie di vari giovani dopo aver insegnato per anni in periferia, viene fuori un sentimento diffuso, che un giovane, Youssef, ha riassunto bene: siamo francesi, ma non francesi-francesi. Ma saggisti, editorialisti che non hanno contatti diretti con questa realtà li presentano sotto un occhio negativo, fomentano paure, creando un’identità negativa.

Quali sono le aspirazioni di questi giovani?

La preoccupazione principale è come trovare il proprio posto nella società, a partire da un’identità multipla. Nel tempo, si adattano a un comportamento da cavallo a dondolo, tra i nuovi codici sociali che devono imparare e la paura di tradire le origini. In molti riescono, anche se è più difficile che per altri. Parlare di integrazione è una falsa questione. In molti imparano a costruire ponti tra i diversi ambienti, il tasso di riuscita, anche scolastica, non è trascurabile, del resto in dieci anni non ci sono state più rivolte. Ma devono fare i conti con le condizioni economiche, che non sono migliorate e con lo sguardo che la società porta su di loro, che si è indurito.

Hollande qualche giorno fa è stato accolto dai fischi a La Courneuve, che nel 2012 aveva votato massicciamente per lui. È cambiato qualcosa rispetto a Sarkozy? Esiste una politicizzazione specifica?

Hollande ha deluso, non c’è dubbio. Nel 2012 il voto era stato soprattutto un referendum anti-Sarkozy. Questi giovani hanno opinioni politiche, ma trovano difficoltà a riconoscersi nei partiti tradizionali. Ma questo non è un problema specifico delle banlieues. C’è stata una generazione di militanti, quella della Marche dei primi anni ’80, era una grande opportunità che poi ha deluso e oggi ne paghiamo le conseguenze. La politica non offre modelli, così anche questi giovani combattono piuttosto per costruirsi percorsi individuali e trovare il loro posto nella società.