Cinquanta anni dopo, nel corso del 2018, molto ancora si è detto e molto si è scritto intorno al Sessantotto. Articoli, convegni, testimonianze. E contributi pensati, più o meno, per aggiornate messe a punto, tra memoria e storia. Avvenimenti che continuano ad esser ben presenti alla generazione oggi intorno ai settanta anni. Il tutto ad infittire una pubblicistica già ricca, che si è accumulata, con particolare incremento, proprio in occasione delle scadenze quinquennali o decennali. Scriveva nel 1982 Mario Tronti: «Sul Sessantotto, tutto è stato detto. Discorsi in generale non se ne possono fare più.

E poi: il tempo, oggi, non cammina, corre. Appena quindici anni, e sembra mezzo secolo». E se tra gli anni Sessanta e Settanta è avvenuta una «vera e propria rivoluzione sociale», va detto, sosteneva Tronti, che «è saltata una forma di società civile, che sembrava essere così da sempre. Divisioni, gerarchie, ruoli, mentalità, che avevano dalla loro parte la forma e l’inerzia della tradizione, diventavano forme aggredite, scalfite, in qualche caso rovesciate». Tronti considerava che «le aggregazioni minime della società, quelle che circondano e accompagnano la vita quotidiana dell’individuo – il lavoro, la scuola, la famiglia – uscivano sconvolte da questi processi». Ad un punto che non può suscitare sorpresa, continuava Tronti, «se poi fu proprio il singolo, la persona singola, a subire una crisi di proporzioni storiche». Dunque è fondata la convinzione di quanti giudicano non solo memorabili, ma esemplari le vicende di quell’anno, tanto che è legittimo indicare nel 1968 un tornante della storia dell’ultimo cinquantennio, una data periodizzante. Orienta la riflessione storica: c’è un prima del 1968 e un dopo il 1968.

E quell’anno si fa eponimo: il Sessantotto. Questione storica che, necessariamente, si sostanzia di molte domande e induce a non sempre concordanti risposte. Stiamo al caso italiano e manteniamoci alla pagina di Tronti. Se, dopo quindici anni, «tutto è stato detto» sul Sessantotto, secondo Tronti molto ancora restava da dire riguardo al «nodo non ancora risolto», scriveva, che attiene al «rapporto tra un movimento e l’individuo, tra la spinta di massa e un soggetto concreto, tra un’utopia generale e la sensibilità di uno, e uno soltanto, che la vive e in parte la alimenta. Questo è problema nostro, di adesso, in una fase dura, di ricerca della vie da praticare, scartati i miti e assunta un’etica del realismo. Come eravamo deve servire a farci capire come saremo, da domani in poi».

Non dunque un invito alla mera testimonianza, certo, ma, a partire dal Sessantotto, l’esigenza di una non prorogabile nuova costruzione di soggettività e politica, capace di dare adito a forme inedite di relazioni sociali e a istituire efficaci procedimenti volti a cambiare gli assetti di potere. Esigenza avvertita da Tronti, e da altri con lui, come non prorogabile, allora, nel 1982. Dopo cinquanta anni dal Sessantotto, nel 2018, possiamo constatare, ad eccezione forse delle elaborazioni e delle pratiche del femminismo, più di una proroga accordata al perseguimento di quegli intenti. Sono intenti affermati con determinazione dal Sessantotto? E posti all’ordine del giorno come prioritari dal movimento antiautoritario degli studenti, appunto, come non prorogabili? Non pare inopportuna o mal posta la domanda. E per più di un verso è lecito scioglierla in dubbio. Ha scritto Pietro Ingrao, che molto ha ragionato su ‘soggettività e ‘forme della politica’:

«Ero cresciuto dentro una forza che metteva in campo una critica radicale alla società esistente. Per la mia generazione era persino troppo facile schierarsi con quei movimenti: attaccavano la società e l’ordine che noi non avevamo saputo abbattere». E continua: «dovessi spiegare ciò che mi lasciava un’ombra, e manteneva una distanza, direi che non mi convinceva il loro antiautoritarismo. Nonostante i loro proclami, nei loro moduli di incontro io non avvertivo una pratica dell’ascolto. Certo, c’era la scoperta dell’assemblea. Ma a me non era chiaro chi prendeva poi la decisione, e con quali vincoli effettivi e controllabili. In fondo quei leader mi parevano molto élitisti».