E infine lo scorso 10 marzo il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al decreto «concernente l’affidamento in concessione del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale, con l’annesso schema di convenzione».

Un’osservazione di metodo: perché non è stato un atto concertato, bensì regalmente octroyé da parte del potere esecutivo? La legge n.220 del dicembre 2015 (la cosiddetta riforma) aveva reintrodotto lo strumento della convenzione, il cui ultimo esemplare fu quello del 1994, definitivamente soppiantato dal contratto di servizio.

Dunque, si creerà qualche sovrapposizioni tra le fonti normative, ma stride il fatto che il consiglio di amministrazione di uno dei due contraenti solo ieri abbia detto la sua – con osservazioni a questo punto solo virtuali – sul testo. Creatività giuridica e amministrativa, sarà.
Tuttavia, il merito è a grandi linee positivo, essendosi fugata la perenne tentazione di spezzettare l’affidamento della funzione pubblica in più aziende, secondo un modello privatistico italiano che – giudizi politici a parte – ha sfornato finora figuracce come la privatizzazione di Telecom o schifezze inquietanti come la vicenda del «Sole 24 Ore».

Privatizzare senza capitalismo e senza capitale è davvero arduo.
L’esclusiva, insomma, rimane alla Rai per dieci anni, fino al maggio del 2027. La vecchia ambiguità in misura omeopatica, però, resiste. Laddove (artt.13 e 14) si ribadisce la separazione manichea tra la parte dell’azienda vocata al puro servizio pubblico e la consorella «compromessa» con la competizione e il mercato.

Passi, ovviamente, per ciò che concerne la trasparenza contabile sulla destinazione dei soldi del canone di abbonamento. Ma per il resto è davvero un pasticcio mediatico.

Ad esempio, Montalbano è o no servizio pubblico? E Sanremo? E il rito delle partite di calcio? Francamente, ogni tanto sarebbe opportuno concludere e non tenere aperto all’infinito il dibattito.

Quella suddivisione fu negli scorsi anni Novanta un’indicazione della Commissione europea dell’epoca, non molto amica del concetto di servizio pubblico-bene comune. A quest’ultimo, nell’era delle tante piattaforme diffusive, è invece richiesto di essere un democratico «navigatore» e un efficace facilitatore dell’accesso della società tutta alla potenza del sapere.
E’ stata anche evitata la manovra da sottoscala del Nazareno di applicare il limite settimanale di affollamento pubblicitario ad ogni singola rete, tanto per dare una botta a Rai1. E si vede la scrittura di una mano esperta alle consuetudini mediatorie proprio nell’articolo 9 sulla pubblicità, che evoca i «principi di leale concorrenza…» che significa forse nobilitare la volontà di frenare le pratiche di vendita delle inserzioni dove si lotta con listini e sconti. Il mercato.

Non sarebbe stato meglio eliminare del tutto la pubblicità da una delle reti generaliste? E miglior esito avrebbe pure avuto la stabilizzazione quinquennale del canone, sulla base della stessa durata prevista per il contratto di servizio.

Si possono sottolineare altre note utili: l’investimento strategico sugli impianti tecnologici, il radicamento nel territorio, l’attenzione promessa all’industria culturale italiana.

Non manca, poi, il richiamo al divieto di «utilizzare metodologie e tecniche capaci di manipolare». Lotta alle «fake news»? Attenzione ai ritorni censori ammantati di buone intenzioni.

Ora la parola spetta alla Commissione parlamentare di vigilanza, che ha il compito di esprimere il parere.

C’è ancora da chiarire.