Mangiare – e coltivare – senza veleni si può. In tutto il mondo. L’esempio danese si inserisce nel Patto di Milano per la politica alimentare, firmato da 150 città del mondo, per una dieta sana nel quadro di sistemi alimentari sostenibili. E il cibo per il presente e per il futuro è al centro della settimana dell’alimentazione in corso alla Fao. Il compendio Beacons of Hope (Fari di speranza), a cura della Global Alliance for the Future of Food e di Biovision, descrive progetti per la fuoriuscita dai veleni.
Sta andando bene, nello Stato indiano dell’Andra Pradesh, il programma Zbnf, Agricoltura naturale a zero budget: ovvero zero spese per input chimici esterni e dunque zero debiti – quelli per i quali tanti contadini indiani si suicidano. Questo piano statale e comunitario «per migliorare il benessere dei produttori, dei consumatori e dell’ambiente» ha già coinvolto 600 mila contadini e dovrebbe arrivare a un milione entro il 2019-2020 e a sei milioni entro cinque anni. Attraverso scambi di conoscenze fra agricoltori le pratiche innovative con l’uso di input interamente locali aumentano la fertilità dei suoli e le rese, riducono costi e rischi, proteggono la biodiversità. Invece, il Piano nazionale brasiliano del 2012 per l’agroecologia e la produzione biologica (Pnapo), nell’era Bolsonaro è colpito da drastici tagli di bilancio.

Fra le raccomandazioni del rapporto Agroecological and other innovative approaches (luglio 2019) curato da un gruppo di esperti (Hlpe) nominati dalla Fao, figurano il taglio ai sussidi e agli incentivi che avvantaggiano pratiche insostenibili, il rafforzamento della normativa in materia di prodotti agrochimici dannosi e la promozione di alternative. L’agroecologia combina la resilienza anche climatica di sistemi agricoli sostenibili con l’equità sociale lungo tutta la catena alimentare, fino al mangiare sano. La vede così anche Timothy Wise, esperto dello Small Planet Institute che nel libro Eating Tomorrow fa notare come i «donatori» pubblici e privati, soprattutto nell’Africa subsahariana, abbiano sostenuto un modello basato sui sussidi per input chimici e semi commerciali, rivelatisi inadatti all’agricoltura familiare e alla necessità di avere cibo ed ecosistemi nel futuro.

Nell’atrio della Fao è allestito una specie di mercato: negli stand di legno, cassette di ortaggi, frutta e cereali da tutto il mondo sono corredate da cartellini e proiezioni video che suggeriscono soluzioni verso la «fame zero», il secondo obiettivo per lo sviluppo sostenibile dell’Agenda Onu 2030. Ma a leggere lo Stato della sicurezza alimentare e della nutrizione 2019, pubblicato qualche mese fa da cinque agenzie dell’Onu, sono ancora 820 milioni le persone che soffrono la fame nel mondo, pari all’11% della popolazione. Dopo decenni di miglioramento, dal 2015 il trend si è invertito. E sono 2 miliardi le persone in stato di malnutrizione moderata o severa. Ecco perché alcune organizzazioni asiatiche definiscono il 16 ottobre «giornata mondiale della fame».

È in corso il decennio Onu per la nutrizione (2016-2025) e da alcuni anni di diete sane e sostenibili si parla e molto; importante il cammino verso nuove linee guida nel campo della nutrizione, iniziato dal rapporto Fao-Hlpe Nutrition and Food Systems del 2017. Ma l’approccio è spesso consumeristico, svincolato dai sistemi alimentari e dalla sovranità agroalimentare, troppo fiducioso in magiche soluzioni tecnologiche.

Intanto il nuovo rapporto plurilingue della Fao Stato dell’alimentazione e dell’agricoltura nel mondo 2019 è dedicato allo spreco e alla perdita di derrate alimentari, pari ad almeno il 14% del raccolto fino al livello della distribuzione. Le soluzioni al problema sono diverse a seconda delle cause: dai silos di terra cruda in Ghana all’attenzione ai rapporti di genere in Etiopia alle campagne tipo «pulisci il tuo piatto» in Cina all’educazione di consumatori e supermercati nei paesi occidentali, fra cui la Danimarca.