Esce il 26 ottobre 1973 Quadrophenia, sesto album in studio degli Who. Quadrophenia è anche la settima o ottava opera rock scritta da Pete Townshend. Già nel 1966, infatti, Townshend, compositore ambizioso e dalla mente aperta a mille influenze (da Charlie Parker a Wagner), concepisce un primo passo in tal senso con «Quads», una storia ambientata in un futuro in cui i genitori avrebbero potuto determinare il sesso dei nascituri. La cosa non andò in porto e si sintetizzò nel singolo I’m a Boy. Alla fine dello stesso anno però concretizza il suo desiderio con A Quick One (while He’s away), una mini rock opera di oltre nove minuti che parla del tradimento di una moglie lasciata sola per un anno dal marito.
Anche in Sell Out del 1967 c’è un’altra mini opera, intitolata Rael, di quasi sei minuti ma concepita per durare il doppio e con una ventina di micro canzoni. Lo stesso album è un concept. Con i brani intervallati da brevi, falsi spot pubblicitari che danno un senso di continuità all’album, come se fosse una trasmissione radiofonica.
L’idea era di supportare la battaglia contro le autorità che ai tempi contrastavano le cosiddette «radio pirata» che trasmettevano illegalmente facendo concorrenza alla Bbc, suonando soprattutto musica apprezzata dai giovani. Nel 1969 arriva la prima vera e propria opera rock, Tommy, che non ha bisogno di particolari presentazioni.
Il successo dell’album porta Pete Townshend a replicare l’esperienza con qualcosa di ancora più ambizioso. Lifehouse è un’idea nebulosa che vorrebbe rappresentare il feeling diretto che la musica stabilisce tra le persone e un gruppo durante un concerto. Il progetto naufragò ma diede vita a quel capolavoro che è Who’s Next.
WOODSTOCK
Gli Who arrivano così al 1972. La band è ormai conosciuta in tutto il mondo, grazie ai recenti successi discografici, agli incessanti tour mondiali, all’apparizione a Woodstock (e al relativo film che ne aveva portato le immagini ovunque) pur divisa da innumerevoli problemi di ego, guai finanziari, derive alcoliche e non solo. Il gruppo è quasi allo sbando, incominciano a circolare voci di uno scioglimento.
Pete prova a ricompattare gli Who con un nuovo progetto, immancabilmente un’opera rock. Si intitolerà Rock Is Dead, long Live Rock da cui sarà tratto un film, Rock Is Dead (Rock Lives). In parallelo c’è un’altra idea, chiamata Four Faces ossia quella di rappresentare in un disco le personalità dei quattro Who. Tra vari ripensamenti e tentativi, all’improvviso Pete focalizza la sua attenzione su un ricordo, di quando trascorse una notte in giro per Brighton con una ragazza, dopo un concerto degli Who, tra mod che vagabondavano dopo uno scontro con i rocker, scooter e quella sensazione di libertà e allo stesso tempo di inadeguatezza rispetto alla società circostante.
Scrive febbrilmente una serie di pensieri e note, le stesse contenute nel booklet del disco. E da lì incomincia a lavorare sul nuovo soggetto. Che gli permette di riportare gli Who alle loro origini, quando suonavano spesso di fronte a un pubblico quasi esclusivamente mod. In un’intervista alla rivista Usa Rock dell’aprile 1973 Townshend rivela di essere a buon punto per un nuovo album dal titolo «QuadrAphRenia» (con una A e una R di troppo rispetto al titolo che conosciamo) basato sulla storia di un ultra mod o meglio «il Mod definitivo» la cui schizofrenia al quadrato riflette le personalità dei quattro membri del gruppo.
ELETTRONICA
Dalla fine del 1972 Pete compone, arrangia, suona, rifinisce, aggiunge, cancella. Il 21 maggio 1973 iniziano ufficialmente le registrazioni.
Quadrophenia è l’unico album interamente composto da Pete Townshend che arriva con i demo in cui le parti orchestrali e dei synth sono già suonate e pronte. Si è spesso definito l’album come un lavoro solista di Townshend, con l’aiuto degli altri Who. In effetti sulla copertina appare scritto a chiare lettere «Quadrophenia in its enterity by Pete Townshend». Ed è altrettanto palese che è tutta farina del suo sacco.
Ma senza l’apporto di Roger, John e Keith, Quadrophenia sarebbe stata un’altra cosa, assolutamente inferiore qualitativamente. Gli Who in questo album danno il meglio di sé, raggiungono l’apice delle capacità, il suono degli strumenti è tra i migliori in assoluto sentiti su un album rock: non sapranno mai più ripetersi a questi livelli.
Pete Towsnhend nel 2011: «È stato l’ultimo grande album degli Who. Non abbiamo mai registrato qualcosa di così ambizioso e audace ed è stato anche l’ultimo album in cui Keith Moon era in un buono stato di forma».
Alla fine non mancheranno tensioni e polemiche all’interno del gruppo, soprattutto da parte di Roger Daltrey che accusa Townshend di aver tenuto la sua voce troppo bassa e il fonico di averla registrata con un effetto impossibile da togliere successivamente. In realtà non sembra, anzi, il mixaggio è perfettamente equilibrato, soprattutto in considerazione dell’ampio numero di strumenti inclusi.
John registra le parti dei fiati nel suo studio, Roger la sua voce in assenza degli altri.
Paradossalmente uno dei dischi rock per antonomasia è anche uno dei primi dischi di musica «elettronica». Townshend fa un grande uso del sintetizzatore Arp 2500 con cui lavora sulle parti orchestrali e che è spesso protagonista in tutto l’album, in perfetta simbiosi con l’abituale anima rock della band. La storia raccontata nel disco è apparentemente semplice.
UNA ROCCIA
Il giovane mod Jimmy, seduto su una roccia, pensa al passaggio drammatico e drastico avvenuto in pochi giorni da una dimensione adolescenziale all’età adulta, attraverso alcune esperienze traumatiche.
Il contenuto, in realtà, è molto più complesso, come ci ha da sempre abituati Townshend. La copertina e il booklet interno all’album sono altrettanto esplicativi e ambiziosi e un’ottima introduzione al concetto dell’album, con il protagonista, di spalle, che riflette negli specchietti della Vespa su cui è seduto le quattro facce degli Who. Il ragazzo della iconica fotografia si chiamava Terry Kennett. La foto venne scattata da Graham Hughes il 24 agosto 1973 mentre quelle interne da Ethan A. Russsell. Terry fu reclutato da Pete Townshend che lo notò in un pub vicino allo studio di registrazione. Gli altri ragazzi che compaiono nelle foto erano amici e conoscenti di Terry, alcuni vicini all’estetica mod, altri rivestiti per l’occasione. C’è anche Paul, fratello minore di Townshend, a lui molto somigliante, sorta di trasposizione dell’autore nella storia. Ad aiutare a ricostruire il look dei mod fu chiamato Linden Kirby, un mod originale. La Vespa, invece, arrivò da un fratello dei ragazzi anch’egli un mod nei Sessanta. Una volta utilizzato, uno dei simboli più ricordati nella storia del rock, venne abbandonato per strada davanti agli studi, vandalizzato e dopo poco tempo caricato su un camion della spazzatura.
LA TRAMA
Jimmy è seduto su una roccia davanti al mare (I Am the Sea) ricordando i motivi che lo hanno portato lì. Il suo dottore (da cui è in cura per problemi psicologici, o meglio, «quadrofrenici»), la sua ragazza, sua madre, il prete, non riescono a capirlo (The Real Me). Sente la pressione di dover essere accettato dai suoi amici, contemporaneamente ai contrasti con i genitori (Cut My Hair) e perfino della differenza tra le rockstar che ama e il suo essere loro fan (The Punk and the Godfather). Sente quanto la sua vita possa essere insignificante nonostante la consapevolezza di essere uno, un individuo con una personalità (I’m One).
Lavora come netturbino (Dirty Jobs) e qualsiasi soluzione politica non fa per lui (Helpless Dancer). Si rassegna al fatto che le sue frustrazioni sono irrisolvibili (Is It in My Head? e I’ve Had enough).
UN SENSO
Cercando di ritrovare un senso nella sua vita, dopo una dose di stimolanti, viaggia in treno (5.15) verso Brighton dove ha vissuto alcuni dei migliori momenti con gli amici mod (Sea and Sand). Troverà solo il mare (Drowned) e il suo eroe mod, Ace Face, che lavora come facchino in un hotel (Bell Boy). La rabbia e la disillusione fanno emergere il suo lato autodistruttivo (Doctor Jimmy). Si dirige in barca verso un scoglio meditando il suicidio. Ma troverà il tempo per riflettere sulla sua vita e capire che sono altri i valori a cui fare riferimento (Love Reign o’er Me).
«Non so davvero come possa tornare da quello scoglio o se anneghi, vinca o perda o qualche altra cosa. Non ho davvero deciso cosa succeda. Mi piace che la decisione finale sia nelle mani dell’ascoltatore» (Pete Townshend).
L’album ebbe un’accoglienza molto positiva sia da parte del pubblico che della critica, vendendo oltre un milione di copie. Purtroppo fu poco promosso dall’etichetta e numerosi intoppi si verificarono durante il tour di supporto. Fin da subito gli Who si resero conto di non poter eseguire l’opera interamente e alcuni brani vennero immediatamente tolti. Townshend si accorse di dover cambiare chitarre e/o accordatura una ventina di volte. Spesso l’impianto non era adeguato a supportare l’impatto sonoro e la complessità della strumentazione.
Il pubblico reclamava i soliti successi ma soprattutto si annoiava a morte ad ascoltare le lunghe introduzioni ad ogni brano che spiegavano la storia di Quadrophenia.
Nel frattempo Roger alla domanda di come fosse Keith Moon nel 1973 risponde: «Un po’ più ubriaco del 1972». La band chiuse il tour tornando in Inghilterra prima e poi con qualche data in Francia nei primi mesi del 1974. Successivamente i brani di Quadrophenia vennero quasi tutti esclusi dai live.
SULLO SCHERMO
Sempre particolarmente attenti all’aspetto visivo, dopo aver trasposto su pellicola Tommy nel 1975, gli Who approdano di nuovo al grande schermo nel 1979 con il film di Frank Roddam.
Phil Daniels (che rimpiazza tra le proposte, Johnny Rotten, dei Sex Pistols) si cala alla perfezione nei panni di Jimmy, Sting è un credibile Ace Face, il film riproduce piuttosto accuratamente il clima del mondo mod nel 1965.
La proiezione di Quadrophenia contribuirà alla rinascita della scena mod (chiamata mod revival) e al suo rilancio discografico, contestualmente al ritorno dello ska attraverso i nuovi dischi della Two Tone Records.
Si è spesso dibattuto su quanto la proiezione di Quadrophenia abbia inciso sul mod revival. Indubbiamente è stata decisiva per rilanciare un aspetto sociale e culturale ben presente in Inghilterra da almeno 15 anni e che era sempre rimasto vivo e vitale nel sottobosco (vedi la scena Northern Soul che dal mondo mod pescava abbondantemente e il fatto che i mod originari, all’epoca dell’uscita sugli schermi, non avevano ancora raggiunto i 40 anni e non di rado avevano continuato ad essere presenti nella «scena»).
ECCO I JAM
Non dimenticando che da almeno due anni i Jam avevano riportato alla luce tutti i riferimenti a quell’epoca, sia esteticamente, che artisticamente. Paul Weller è un mod, lo rivendica e lo sbatte in faccia, impunemente, alla scena punk, da cui si distacca pubblicamente e provocatoriamente, fin dall’inizio. Parallelamente, a testimonianza di una continuità mai sopita nella cultura giovanile britannica, nel decennio che separa la «scomparsa» dei primi mod, alla fine dei 60, e il «revival» della fine dei 70, continuano a proliferare gruppi che si rifanno esplicitamente a quegli anni e a quei suoni. A partire dal cosiddetto pub rock dei Dr. Feelgood e dei Kilburn and the High Roads del compianto Ian Dury, fino al rhythm and blues dei Nine Below Zero e dei Count Bishops. Senza dimenticare band come Chords, Jolt e Purple Hearts, già attive in un alveo mod ma inconsapevoli di una scena che stava per crescere e esplodere.
Il film, unito a una martellante campagna mediatica delle riviste inglesi, sempre pronte a creare nuove tendenze, fece da detonatore. Il punk era già quasi archiviato e comunque spesso scomodo e eccessivo. Il mondo mod era invece ben più affine a una quotidianità british working class, fatta di pub, musica, calcio, senza troppe implicazioni e rivendicazioni politiche. Gli Who non erano ormai più un simbolo mod (anzi, ai tempi, erano semplicemente dei dinosauri del rock, anche se avevano da poco sorpassato i 30 anni!) ma, allo stesso tempo, rimanevano i capostipiti, i referenti, gli «absolute beginners» (pur essendo diventate rockstar con barbe, capelli lunghi e vestiti trasandati). Erano parte della cultura pop inglese (il cui sciovinismo e nazionalismo non sono mai stati un mistero per nessuno) e, di conseguenza, il rispetto era unanime, anche da parte dei giovanissimi mod, «rivestitisi» per l’occasione. Come è normale e spesso accaduto in Inghilterra, l’adesione a una sottocultura non ha mai avuto l’approccio militante e quasi religioso che abbiamo trovato puntualmente in Italia. Per molti si trattava semplicemente cambiarsi d’abito. Valgano gli esempi dei Killermeters, nati nel 1977 come punk band e con una veloce mutazione diventati una mod band nel 1979, con il loro leader Vic Vomit che cambiò il nome in Vic Vespa! O i Lambrettas che si formarono proprio in quei giorni (con un nome che più sfacciato non si poteva) e firmarono immediatamente per la Rocket Records di Elton John. O i New Hearts che, scottati dallo scarso successo in un contesto sonoro più new wave, fecero alla svelta a rivestirsi in giacca e cravatta, cambiare nome in Secret Affair e proclamarsi leader della nuova scena mod.
PAGINE DA RIEMPIRE
Non è una novità. Ci sarebbero pagine da riempire nell’elencare quanti hippie, glam rocker, prog rocker, verso la fine del 1976 abbiano deciso di tagliarsi i capelli corti, indossare un giubbotto, un paio di occhiali scuri, cambiare radicalmente musica e nome e diventare un perfetto gruppo punk.
Quadrophenia è un evento epocale. Cambia e influenza radicalmente migliaia e migliaia di ragazzi che, per la prima volta, scoprono il mondo mod e in tanti ci si riconoscono. Questa volta non solo in Gran Bretagna ma in tutto il mondo. La prospettiva è affascinante. C’è la ribellione giovanile e adolescenziale, una musica accattivante e affascinante, un’estetica mai eccessiva, pur se distintiva, uno scontro anti autoritario che, in tempi di ben altri livello di scontro, è accettabile. I protagonisti del film non sono super eroi. Al contrario sono perdenti, in preda al disagio, aggrappati disperatamente a valori personali e individuali, esclusivi e «segreti». Una dimensione perfetta in cui identificarsi. La cultura mod raggiunge tutto il mondo e da allora non è più scomparsa ma ha continuato a rinnovarsi.
Curiosamente, ma non troppo, il film ha parecchie inaspettate affinità con Saturday Night Fever.
I protagonisti Jimmy e Tony Manero/John Travolta sono entrambi di estrazione proletaria, quartieri periferici, lavori precari, famiglie spente e fallite, vivono in strada e con le regole della strada, si scontrano entrambi, anche fisicamente, con gang rivali, cercano nel sesso facile e nelle droghe emozioni e effetti urgenti e immediati. Trovano nel ballo, nella cura estetica, nei valori del gruppo di amici, un riscatto da una condizione sociale pessima e dalle scarse prospettive. Entrambi lo fanno ballando musica nera, l’una, la disco music, evoluzione dell’altra, il rhythm and blues.
Per entrambi il mondo «magico» costruito nel proprio immaginario, nel proprio senso di appartenenza, svanirà più o meno tragicamente e improvvisamente e sarà la realtà a riportarli a terra. Le affinità non sono casuali. Il giornalista inglese Nick Cohn scrisse nel 1976 per il New York Magazine l’articolo Tribal Rites of the New Saturday Night che fu l’ispirazione per la sceneggiatura di Saturday Night Fever. L’articolo era presentato come un reportage sulla nuova scena disco music di New York. Vent’anni dopo Cohn dichiarò che si era inventato tutto, essendo arrivato a New York da pochissimo e non avendo alcuna conoscenza della città o della scena locale, si ispirò per il suo articolo a un mod londinese che conosceva molto bene e che lui stesso definì un «King of Goldhawk Road» (una strada di Londra). Trasposto l’amico in un contesto new yorkese e discomusic l’articolo era divenuto pienamente credibile.