Anni e Josef Albers visitarono il Messico quattordici volte, alcune delle quali coincisero con lunghi periodi sabbatici che permisero loro di disporre liberamente del tempo, senza l’urgenza dell’insegnamento (al Black Mountain College, ma anche a Yale e in varie università dell’America Latina, dal Cile al Perù).
Viaggiavano in macchina, in compagnia o da soli, macinando chilometri su strade semideserte e polverose, fermandosi per fare benzina e rifornendosi di piccole mappe su cui cerchiavano in rosso i siti archeologici. Poi, di ritorno, scrivevano lettere dai toni esaltati agli amici, soprattutto a Kandinsky. Previlegiavano quel «lavoro sul campo», imbevuto del sudore fisico e trafitto dalla luce di mezzogiorno, alle sale dei musei dove erano disposte, in teche asettiche, le sculture e ceramiche precolombiane munite di cartellini. Odiavano le annotazioni che raccontavano la biografia (religiosa e quotidiana) di quegli oggetti. Meglio per loro collezionare pezzi d’istinto – arrivarono a raccoglierne mille e quattrocento – senza dover ripercorre la Storia a ritroso e lasciando intatto il mistero. Al bisogno, Josef poteva scambiare prosaicamente sue opere con una testa olmeca. E con un atteggiamento altrettanto disincantato – e un po’ colonialista – si assicurava i reperti che riaffioravano dalle viscere della terra quando i contadini aravano.
L’approccio di entrambi i coniugi non mostrava ansie da classificazione e il loro sguardo non temeva sovrapposizioni con quello dell’antropologo. Lo spiegò bene Josef Albers nella sua conferenza alla Graduate School of Design della Havard University (1937): lui e Anni, di fronte alla maestosità delle rovine di Mitla o di Monte Albán, erano alla ricerca della «veridicità dell’arte», di quel pensiero interno alla materia in grado di trasfigurarla in un esercizio senza sprechi e in pura disciplina, giurando una sorta di segreta fedeltà alla sua anima – sia essa una tavolozza cromatica, un ornato in pietra, una statuina in terracotta. «L’arte è spirito e ha vita propria», concludeva l’ex docente del Bauhaus che aveva insegnato ai suoi studenti il thinking in situation, l’assoluta autonomia della percezione – e la sua insondabile capricciosità – da ogni postulato teorico dato a priori.

Tra le rovine anche Artaud
Gli Albers non erano gli unici ad aggirarsi in Messico, in quegli anni. C’era anche Antonin Artaud, partito dalla sua Francia per tenere una serie di conferenze e perdutosi (o ritrovatosi) tra gli uomini della tribù dei Tarahumana e gli effetti allucinogeni del peyotl. Con modalità distanti sideralmente, la coppia degli Albers e Artaud situarono nella geografia messicana la terra promessa per una possibile rigenerazione; per i primi due, però, la catarsi era tutta interna alla sintassi del linguaggio astratto, non minava le basi della loro esistenza. Lo spazio frammentario delle rovine con i suoi modelli decorativi che inseguivano il negativo e il positivo, le simmetrie e la serialità era uno specchio interattivo che fagocitava lo spettatore. Per questo, di fronte a un qualsiasi monumento precolombiano Josef fotograferà da differenti punti di vista, assegnando alla pietra sequenze cinematografiche e un’animazione pulsante dei suoi significati ancestrali.
La mostra inauguratasi a Venezia presso la Collezione Peggy Guggenheim, dal titolo Albers in Messico (visitabile fino al 3 settembre, a cura di Lauren Hinkson), accompagna i giorni della Biennale di architettura scandendola con l’ossessione per le piramidi e le costruzioni precolombiane dell’artista, soffermandosi su un aspetto poco conosciuto della sua opera o meglio del suo farsi. Schivo e poco propenso a spiegare l’origine dei suoi quadri – spesso cicli di studi su una forma che varia perché «accade nel tempo» – Albers narra molto di sé attraverso le numerose fotografie scattate ai siti dell’antica capitale zapoteca o ai dettagli di sculture come teste di leoni, serpenti, fregi architettonici, quel motivo «a greca scalata» – xicalcoliuhqui – che ritroviamo ripiegato negli Omaggi ai quadrati, base labirintica di una piramide virtuale, còlta in prospettiva aerea.

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Nato a Bottrop nella Westfalia affumicata dal carbone e poi emigrato negli Stati uniti quando in tutta Europa l’aria si era fatta irrespirabile (la chiusura per volontà nazista del Bauhaus, oltretutto sua moglie Anni, che lì dirigeva il laboratorio di tessuti, era ebrea), Albers aveva imparato la precisione artigianale del tocco dal padre, imbianchino e muratore, uomo versatile dai molti talenti. Bambino, lo aiutava a dipingere le croci del cimitero locale; una volta adulto, continuò a partire dal centro per evitare sgocciolature e non tradire le incertezze della mano. Si avviò nell’arte inseguendo le trasparenze del vetro, affascinato dalle enormi finestre delle chiese medioevali e anche dai quadri di Cézanne, con quel loro sfumare di volumi solidi e l’alternarsi di pieni e vuoti che, alla fine, si compentrano.
Homo faber per eccellenza (le sue lezioni teoriche e i suoi scritti, asseriva, non cercavano mai risposte ma metodi), sperimentò prima con i cocci di bottiglia raccolti in discariche, poi con collage di foglie cadute per passare alle linee galleggianti su sfondi aerei e all’imprevedibilità delle Varianti. Infine, per ventisei anni con un’attitudine monastica – lo testimoniano le sue case e gli atelier frugali – ha dipinto la mutabilità del colore e delle forme negli Omaggi ai quadrati, costruendo spazi invisibili e dinamici, cattedrali dell’ambivalenza, visioni sentimentali, lontanissime dagli effetti dei minimalisti americani dei quali Albers è sempre considerato un padre putativo. Eppure, proprio come le sue opere, è un «inclassificabile», un artista che ha attraversato gran parte del Novecento (morì nel 1976, a 87 anni) nella convinzione che tutto fosse relativo: Interaction of Color, la sua bibbia laica, uscì nel 1963 per dire anche ai profani che la visione è solo di chi guarda, che la costruzione cromatica è un’architettura mutevole, dinamica e sprigiona energie oscure. «I miei quadri si muovono avanti e indietro, si ingrandiscono e rimpiccioliscono». Ogni suo dipinto, diceva, era solo un atto di sobria meditazione, con propensione alla poesia.

Oltre ottanta gialli allineati
Le piramidi preispaniche, il loro enigma perpetuo e i segni dell’attività di scultori così rispettosi della materia lo condussero verso la soluzione artistica che più lo ha caratterizzato. Nessuna mescolanza dei colori, per non perdere in lucentezza, ma una fuoriuscita del pigmento direttamente dal tubetto che poi veniva «addomesticata» dalle ritmiche e geometriche spatolate («lo spalmo come faccio col burro sul pane di segale»). E siccome ogni opera è soltanto una variazione del possibile, Josef Albers era sensibilissimo ai minimi scarti cromatici. Di gialli ne aveva più di ottanta allineati nel suo studio, ma si lamentava: non erano sufficienti per intercettare quella «discrepanza tra fatto fisico e effetto psichico».
La mostra veneziana consente di immaginare anche un Albers fotografo. Raramente sono uscite allo scoperto le sue stampe e i provini. Le immagini venivano montate su pannelli in sequenze che raccoglievano più punti di vista, dando la precedenza all’inquadratura multipla, alla relatività del vedere, frammentando il campo totale in un mosaico di sguardi. Come reporter non dimenticò il suo assunto originario, ribadendo l’inafferabilità della vita.