È l’attualità, come sempre, ad arbitrare i sentimenti dell’opinione pubblica. Se succede qualcosa di altrettanto grave, pesante, ma fa parte delle cose dimenticate (o addirittura sconosciute) non preoccupa, non sensibilizza più nessuno.

L’esempio di questa parabola arriva dal calcio, portacolori involontario ne è l’Inter, che proprio questa sera in Europa League (a San Siro) affronterà i campioni d’Azerbaijan – dopo l’esperienza di un paio d’anni fa col Neftchi Baku – dell’Fk Qarabag Agdam, espressione sportiva di un territorio violentato, massacrato e attualmente militarizzato nel Caucaso meridionale, il Nagorno Qarabag, motivo di contesa nell’infinito scenario dualistico con l’Armenia.

 

Ma il caso vuole che i nerazzurri di Mazzarri si siano ritrovati nel girone anche una squadra ucraina, il Dnipro di Dniprpetrovsk, affrontato proprio due settimane fa in terra straniera. E lì, l’onda lunga dei telegiornali si è ampiamente diffusa, poiché ancora forte delle continue notizie di conflitto civile che dominano la scena delle cronache internazionali.

Tormento e desolazione della guerra

In pochi però si sono ricordati che due settimane dopo la stessa Inter (anche se questa volta in Italia) avrebbe incontrato una squadra che, per eccellenza, rappresenta il tormento e la desolazione causate da guerra e pogrom.

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Basta infatti scorrere il dito sul mappamondo di pochissimi centimetri per trovare il Nagorno Qarabag, repubblica autoproclamatasi tale per volontà dei militari armeni circa 25 anni fa, nell’ambito di uno dei conflitti più sanguinosi della storia, che tra i tanti massacri, portò a quello di Agdam, passata dall’essere una cittadina (roccaforte azera del territorio da sempre rivendicato dagli armeni) di 60mila abitanti e ora quasi totalmente disabitata. La «città fantasma» come da tutti viene nominata.

La bandiera di questa repubblica richiama i colori del vessillo armeno e questo gli azeri non riescono proprio ad accettarlo, ma sarebbe successo lo stesso a parte invertite. È ormai insanabile il conflitto etnico-culturale-religioso tra gli armeni (cristiani) e gli azeri (musulmani): uno scontro che non ha trovato (e non troverà mai) posto tra i libri di storia, ma solo in alcune pubblicazioni di settore o in quelle di Ryszard Kapuscinski – maestro del reportage – che, dopo aver corrisposto da Stepanakert nell’estate del 1990, nel libro Imperium si lasciò andare a questa riflessione, che forse spiega meglio di qualsiasi altra, l’insanabile frattura tra i due popoli: «(…) Gli azerbaijani, come gli armeni, dividono il genere umano in due opposte fazioni: i buoni e i cattivi. Per gli armeni un alleato è chi considera che il Nagorno Qarabag sia un problema. Tutti gli altri sono nemici. Per gli azerbaijani un alleato è chi pensa che il Nagorno Qarabag non sia un problema. Tutti gli altri sono nemici. Si resta colpiti dall’estremismo e dalla radicalità delle due posizioni».

E, in pratica, banalizzando il concetto, l’Fk Qarabag Agdam è l’espressione calcistica azera di un territorio governato da armeni, che hanno sempre rivendicato il Nagorno come estensione della Repubblica di Erevan, un territorio – visto da questa particolare ottica – da rivendicare una volta per tutte invece di accettare come sempre il concetto di diaspora. Armeni, che rasero fuoco Agdam (stadio compreso) per evitare che la città tornasse ad essere occupata dagli stessi azeri.

Ora l’Fk Qarabag gioca le partite del campionato locale a Quzanli, cittadina di 13mila abitanti nei pressi dell’area militarizzata, che però ospita un funzionale impianto da oltre 30mila posti (in cui si sono svolte anche concerti importanti di Elton John, Jennifer Lopez e Shakira), dedicato all’ex arbitro, presidente della Federcalcio azera, calciatore e dirigente sportivo sovietico Tofiq Behramov.

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E la squadra di calcio dell’Fk Qarabag ha fatto di tutto per sottolineare i tratti distintivi della cultura azera: a cominciare dai colori sociali, il nero, come i giardini montuosi neri in cui gli antenati si erano stabiliti, nello strettissimo corridoio di Laçin, per evitare contiguità di confine con l’Armenia, quando ancora il Nagorno era una enclave armena, prima del protrarsi della guerra tra il 1992 al 1994.

«In Azerbaijan tifo un’altra squadra, il Qavala, ma andrò lo stesso a San Siro a seguire il Qarabag – spiega Elvin Muradzade, giovane 21enne azero che studia a Torino, al Politecnico -. Quella squadra fa parte della nostra cultura, del nostro orgoglio di essere azeri. Stiamo crescendo grazie a bravi professionisti e ai calciatori stranieri». Brasiliani, nella fattispecie, che stanno aiutando molto tutto il movimento, anche quello del calcio a 5. Anche a far crescere i colleghi azeri, che dal canto loro danno anima e corpo in campo.

Fortuna che c’è il calcio

Come l’attaccante Vuqar Nadirov, nato nel 1987 proprio ad Agdam e figlio di un generale antiarmeno, impegnato sul fronte durante la guerra. «Il 15% dei nostri connazionali è nato nel Nagorno-Qarabag – prosegue Elvin – in quegli anni era dura essere azeri. Ancora oggi abbiamo circa un milione di rifugiati… Quell’area però è nostra, lo dice la storia».

Fortuna che c’è il calcio e il calcio in questo caso è vita. Nonostante le difficoltà di spostamenti e di vivere una realtà certamente mai serena, i «cavalieri» (raffigurati nello stemma societario) Qarabag è la squadra del momento in Azerbaijan. Vincitore di due campionati (tra cui l’ultimo) e di tre coppe nazionali, ha soppiantato il «petrolifero» Neftchi Baku (che da anni non detiene più il monopolio calcistico del paese) e viaggia a vele spiegate verso il calcio «bailado», proprio grazie ad una linea di centrocampo fatta quasi esclusivamente dai brasiliani, gli esterni Danilo e Richard, e i trequartisti Chumbinho e Reynaldo.

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Meritevole di segnalazione anche l’apporto di un tecnico giovane e preparato, Qurban Qurbanov, che prima della partita ha lanciato l’urlo di battaglia: «Contro l’Inter è una grande occasione: non possiamo ancora competere col calcio italiano ma abbiamo fame di vittorie e a San Siro venderemo cara la pelle».

Il tutto sotto l’ala protettiva di un investitore straniero, il presidentissimo turco-iraniano Abdullbari Gozal. Tanti, come lui, cercano la fortuna in un calcio disposto ad aprire le porte un po’ a tutti, abbandonando di fatto le figure legate al petrolio del golfo di Baku.

Il lato sbagliato di Baku

E qui dall’ovest del paese passiamo nell’estremità orientale, quella in cui viaggiano veloci e nascosti le infinità di denaro legato alle estrazioni. Di certo non la faccia migliore di Baku, nonostante siano stati certi proventi a finanziare la campagna conoscitiva «Visit Azerbaijan», scritta che fa bella mostra sulle magliette dell’Atletico Madrid. Da picchi di estrema ricchezza si passa a situazioni miserabili.

Rapporti dell’organizzazione Humans Rights Watch, denunciano infatti «centinaia di arresti arbitrari, pestaggi diffusi, licenziamenti senza giusta causa per gli oppositori politici». Diritti umani continuamente calpestati – con il beneplacito degli americani, interessati alla costruzione di un oleodotto che da Baku porti in Turchia, tagliando fuori dagli affari la Russia – in uno stato la cui maggioranza di popolazione vive al di sotto de 4mila dollari annui procapite e della soglia di povertà.

Un paese, nonostante lo status di repubblica, ancora considerato «non libero» dall’organizzazione governativa internazionale Freedom House e in cui il presidente di lungo corso Ilham Aliyev viene continuamente accusato di brogli elettorali per mantenere la propri carica. E figlio del suo predecessore Heydar, in carica fino al 2003, che prima di morire a Cleveland, lasciò l’Azerbaijan in uno stato di conclamata corruzione politica e disagi sociali.

Differenze enormi, che continueranno ad essere pressanti per tanto tempo, nello scenario di una tensione etnica e culturale con la vicina Armenia che forse mai verrà sedata.