Alias

Pylos, il naufragio dell’Europa nella Fossa di Calipso

Pylos, il naufragio dell’Europa nella Fossa di Calipso

La strage di migranti Le voci dei superstiti, a quattro mesi dalla strage: tra chi vuole dimenticare e fuggire, e chi chiede giustizia, mentre le responsabilità della guardia costiera greca sono al vaglio della magistratura

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 14 ottobre 2023

«Era così buio che non saresti riuscito a vedere il tuo dito di fronte al viso. Quando la barca si è capovolta, abbiamo gridato tutti insieme: il suono era spaventoso. La motovedetta della Guardia costiera ha puntato un faro sul peschereccio che si stava inabissando, e ha fatto esplodere in aria dei fuochi d’artificio per illuminare la scena. Poi l’equipaggio è rimasto a guardare, come se fosse un film». Mentre ricorda la notte del 14 giugno, lo sguardo di M. rimane fisso nel vuoto: ha ventuno anni, e ha accettato di parlare solo in forma anonima, perché non si sente «al sicuro in Grecia». Quando il manifesto lo ha incontrato, sperava di ottenere al più presto l’asilo, per imbarcarsi sul primo aereo diretto verso il nord Europa. Pochi giorni dopo l’incontro, i nostri messaggi sul cellulare si sono riempiti di foto della porta di Brandeburgo e delle strade piovose di Berlino. A corredo delle foto, decine di emoticon della bandiera tedesca, come un grande punto esclamativo: «Germania, finalmente». Ma una parte di lui è rimasta a sud della Grecia, in un punto che le mappe non riportano, quarantasette miglia nautiche a sud-ovest della città di Pylos, in un quadrato di mare senza nome nellarea di ricerca e soccorso del Paese. M. è uno dei 104 superstiti del naufragio avvenuto il 14 giugno scorso a largo delle coste del Peloponneso, quando un peschereccio con a bordo circa 650 persone è colato a picco nella Fossa di Calipso, il punto più profondo del Mediterraneo.

Sul peschereccio, partito dalla Libia e diretto in Italia, si era imbarcato con sei amici di infanzia, tutti originari di Hama, una delle prime città siriane ad assistere ai tumulti della Primavera araba. Oggi è l’unico sopravvissuto del suo gruppo di amici. «La nostra traversata è durata sei giorni: sei giorni in cui abbiamo viaggiato con i morti. Io stesso ho visto morire davanti a me due passeggeri per disidratazione». In una delle rare foto del peschereccio, scattata da un elicottero della Guardia costiera greca, si vedono centinaia di persone, ridotte a poco più di una macchia colorata, sollevare le mani verso il cielo. Tra quelle persone c’era anche M: come tutti i migranti siriani, aveva trovato posto sul ponte perché aveva potuto pagare di più i trafficanti. I pachistani, invece, che rappresentavano la maggioranza dei passeggeri, erano stipati con le donne e i bambini nella pancia della nave e nelle sale che in origine contenevano le celle frigorifere per il pesce. «Sul ponte avevamo più aria, ma il sole non ci dava tregua ed eravamo rimasti senza acqua: quando una nave commerciale si è avvicinata alcuni di noi hanno sollevato il cadavere di un uomo pachistano, per fare capire che avevamo bisogno di aiuto».

Oggi sappiamo che per quindici ore le autorità greche sono rimaste a osservare il peschereccio sovraccarico, mentre andava alla deriva, senza soccorrere le persone a bordo. La prima a lanciare l’allarme, la mattina del 13 giugno, era stata la ong Alarm phone, poi la Centrale operativa di Roma aveva contattato il Centro di coordinamento per il soccorso greco segnalando la presenza, in base alle testimonianze, di un bambino morto a bordo. Anche un aereo di Frontex aveva localizzato il peschereccio e lo aveva comunicato ad Atene. La Guardia costiera greca, però, aveva inviato una motovedetta dall’isola di Creta solo nel primo pomeriggio, con a bordo dieci uomini dell’equipaggio e tre membri delle Forze speciali della Guardia costiera. Nelle ore successive, due navi commerciali, la Lucky sailor e la Faithful warrior, avevano approcciato il peschereccio per rifornirlo di acqua e provviste. Secondo le testimonianze del capitano della Faithful, alcuni migranti avrebbero slegato le corde con cui era stato agganciata la barca per facilitare il passaggio dei viveri. «Ma non è vero che non volevamo essere aiutati: eravamo così disperati che avremmo accettato di essere recuperati anche dalla Guardia costiera libica. Il problema era che il lancio di aiuti rischiava di fare capovolgere l’imbarcazione, perché la gente a bordo era nel panico: quello che chiedevamo era di essere soccorsi, non riforniti», racconta M. Poi, quando ormai era scesa la sera, la motovedetta delle autorità greche aveva approcciato il peschereccio. «All’inizio ci hanno detto di seguirli, perché ci avrebbero portato in Italia: lo abbiamo fatto, ma il motore aveva problemi e veniva continuamente riparato, poi ha smesso di funzionare». A quel punto, secondo il racconto, la motovedetta ha agganciato il peschereccio con una corda. «Al primo tentativo si è slegata: al secondo hanno iniziato a trainarci; ma dopo meno di due minuti la barca si è ribaltata».

Era circa l’una e quaranta di notte: nell’ultima chiamata ricevuta dalla ong Alarm phone si sente un migrante a bordo dire «Hello my friend, the ship you send is …”, e poi più niente. M. sapeva nuotare, ma aveva paura delle autorità greche: per questo si è diretto verso la luce di una nave commerciale poco distante, aiutato dalle onde che si erano propagate dopo il naufragio: «Mi hanno issato sulla nave con una corda: e subito dopo ho perso i sensi». La mattina, dopo avere ricevuto del tè e avere scambiato qualche parola con il capitano turco della nave, è stato recuperato da un elicottero della Guardia costiera e portato nell’ospedale di Kalamata, la città portuale dove sono stati trasferiti i 104 superstiti: cento di questi hanno raggiunto il porto a bordo dello yacht Maya Queen, accorso sul luogo del naufragio subito dopo. In ospedale, M. ricorda che un uomo in borghese gli ha sequestrato il cellulare: non lo riavrà più indietro, come è accaduto a tutti i superstiti. «In quel momento non pensavo a niente, solo ai miei amici che non riuscivo a trovare». Assieme agli altri sopravvissuti, M. è stato ospitato nel campo di identificazione e accoglienza di Malakasa, mentre era in attesa di conoscere l’esito della domanda di asilo. Oggi, nel campo a quaranta chilometri a nord di Atene, vivono ancora circa venti superstiti. In molti, tra chi ha ottenuto l’asilo, hanno raggiunto i Paesi del nord Europa: la legge gli permette di allontanarsi dalla Grecia – il Paese dove hanno ottenuto protezione – per un periodo di massimo tre mesi, ma difficilmente torneranno indietro. Nessuno di loro vuole rimanere nel sud dell’Europa: l’obiettivo è chiedere di nuovo l’asilo in Paesi come la Germania, una pratica non ammessa dal regolamento di Dublino. Ma in passato Berlino ha scelto, di fronte a un numero sempre più pressante di “seconde” domande, di concederlo, una specie di sanatoria per impedire che migliaia di persone continuassero a vivere nell’illegalità. A questa speranza si aggrappano oggi molti superstiti di Pylos; altri, invece, hanno ottenuto il ricongiungimento familiare. Bart Toemen, l’avvocato olandese che ha assistito Mohammad, il giovane siriano fotografato nel porto di Kalamata quando, oltre le sbarre dei cancelli, abbracciò il fratello che era arrivato in Grecia alla sua ricerca, fa sapere che i due si sono ricongiunti in Olanda.

Molti dei superstiti si sono lasciati alle spalle la Grecia, ma non per questo hanno smesso di chiedere giustizia per la strage del naufragio. In quaranta hanno sporto una denuncia presso il tribunale del Pireo, chiedendo che le indagini delle autorità greche avvengano in maniera imparziale e approfondita. La procura di Kalamata sta portando avanti l’inchiesta sulle presunte responsabilità della Guardia costiera: il capitano, ascoltato nelle settimane scorse, ha ribadito che la barca si sarebbe ribaltata a causa di un improvviso spostamento di peso, quando la motovedetta si trovava a settanta metri di distanza. Il procuratore, con un ritardo di oltre tre mesi, ha ordinato il sequestro dei telefoni cellulari dell’equipaggio della Guardia costiera, alla ricerca di possibile materiale per fare luce sull’accaduto. «Da quello che sappiamo, i sopravvissuti non sono ancora stati ascoltati come testimoni nelle indagini; il che è incredibile. E i loro telefoni, che potrebbero avere filmati importanti, non sono mai stati restituiti», denuncia Lefteris Papagiannakis, direttore del Greek Council for refugees, ong impegnata a offrire sostegno legale ad alcuni dei sopravvissuti.

Nonostante siano passati ormai quattro mesi dal 14 giugno, il tempo si è fermato per le centinaia di famiglie rimaste in attesa di una conferma sulla sorte dei parenti. Le operazioni di identificazione degli 82 corpi recuperati in mare sono ancora in corso. «Continuiamo a ricevere campioni di Dna: finora, abbiamo identificato 42 corpi, soprattutto di cittadinanza pachistana», spiega il tenente colonnello di polizia Pantelis Themelis, a capo della squadra che si occupa dell’identificazione. «I corpi degli egiziani e dei pachistani a cui è stato restituito un nome sono stati trasferiti nei Paesi di origine, mentre per i siriani è più difficile, a causa della diversa situazione politica».

Syed Hassan vive in appartamento del Pireo con altri cinque connazionali, durante il giorno si guadagna da vivere raccogliendo ferri vecchi che rivende al mercato nero. Tutto quello che gli rimane del cugino, Aneez, è un messaggio audio su whatsapp. «Siamo saliti sulla barca, stiamo bene e stiamo per partire: Usnan è con me, per favore avverti la sua famiglia», si sente. Mostra la foto del passaporto del cugino: anno di nascita 2003. «So che non c’è più nulla da attendere, ma non so a cosa altro aggrapparmi», racconta. Il punto di riferimento di Syed e di centinaia di famiglie sparse per l’Europa è la Comunità pachistana di Grecia, il cui telefono, in una sede nel centro di Atene, non ha mai smesso di squillare.

«Crediamo nel fatto che riusciremo ad avere giustizia per quello che è accaduto a Pylos, ma serve coraggio, e tempo», spiega Javed Aslam, presidente della comunità, abituata negli anni ad affrontare molte battaglie legali, a partire dal processo contro il partito neonazista di Alba Dorata, i cui esponenti avevano assassinato un lavoratore pachistano.

Intanto, negli ultimi mesi il numero dei migranti in arrivo in Grecia è tornato ad aumentare: 30mila persone sono approdate nel Paese quest’anno, a fronte delle 18mila registrate nei primi nove mesi del 2022.

«È verosimile pensare che gli arrivi siano in crescita perché la Guardia costiera ha ridotto i respingimenti illegali, dopo essere finita sotto accusa per la tragedia», spiega Papagiannakis. Molti operatori umanitari impegnati nelle isole concordano con questa lettura. Dopo il naufragio di giugno, la Guardia costiera si è premurata di documentare il salvataggio di centinaia di persone con la pubblicazione dei video dei soccorsi, mentre la telecamera della motovedetta di Pylos era, per sua stessa ammissione, “fuori uso”. Quattro dei cinque hotspot nelle isole dell’Egeo hanno superato la loro capacità massima. Il campo di Samos, pensato per ospitare 2mila persone, ne accoglie ora 4mila. Di fatto, è impossibile, per i giornalisti, accedervi: il ministero dell’Immigrazione ha chiarito che nel periodo attuale, «l’ingresso dei media non è una priorità, poiché l’aumento dei flussi ha accresciuto il carico di lavoro del personale».

L’ultima estate greca, costellata di tragedie, ha mostrato in tutta la sua crudeltà la sostanza delle politiche migratorie di Atene. «Se non muori affogato in mare, ti uccidono le fiamme», denunciava uno striscione apparso nei giorni scorsi nel quartiere di Exarchia. Il 21 agosto, i corpi carbonizzati di 18 richiedenti asilo sono stati rinvenuti nell’unità periferica dell’Evros, al confine con la Turchia, nei pressi di una baracca divorata dall’enorme incendio che per tre settimane è divampato nella regione. Finora solo una delle vittime è stata identificata ufficialmente, ma un’inchiesta del New York Times ha dimostrato che almeno 12 migranti del gruppo erano stati respinti dalle autorità greche più volte al confine. Quando hanno visto le fiamme avanzare, hanno scelto di proseguire al riparo degli alberi, temendo che se avessero seguito la strada principale, sarebbero di nuovo incappati nelle guardie di frontiera. Bruxelles, intanto, segue il solito copione: di fronte all’aumento degli sbarchi, ha espresso solidarietà alla Grecia e la commissaria agli Affari europei Ylva Johansson ha promesso finanziamenti aggiuntivi per fronteggiare il fenomeno, a conferma che la cooperazione con Atene non è stata intaccata dalla tragedia di Pylos.

M. non sa ancora se il suo viaggio si è concluso in Germania: vorrebbe studiare e trovare lavoro come ingegnere meccanico, ma non può rassegnarsi all’idea che le autorità greche rimangano impunite. «Nel porto di Kalamata mi sono dovuto occupare di trascrivere i nomi dei miei amici nella lista dei dispersi: lì ho visto che l’elenco arrivava fino al numero 530, e ho realizzato davvero cosa è successo. Queste persone sono state assassinate, e meritano giustizia, anche se dal fondo del mare non possono più parlare. Parliamo noi sopravvissuti, per loro».

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento