Conferenza stampa di fine anno, ieri a Mosca, per Putin. Un tradizionale appuntamento in cui il presidente russo ha potuto fare un bilancio dei mesi trascorsi ma soprattutto proiettarsi nelle sfide dei prossimi anni. Un totale di 65 domande che hanno abbracciato soprattutto questioni di politica interna. Un ampio capitolo inevitabilmente è stato dedicato alle elezioni presidenziali che si terranno il 18 marzo prossimo. Putin ha annunciato che non si presenterà come candidato del suo partito, «Russia Unita» ma come candidato «indipendente».

Una novità volta a raggiungere uno scopo neppure tanto celato: trasformare le elezioni in un plebiscito sulla sua persona («quello a cui tengo più di tutto è un ampio sostegno popolare»). Veri concorrenti non ce ne sono (il primo concorrente, a 45 punti di distanza nei sondaggi è lo xenofobo Zironovsky) e Putin a questo punto intende presentarsi come al di sopra dei partiti e delle classi sociali, tra un De Gaulle e un Luigi Bonaparte.

Del resto, ha ammesso Putin candidamente, «non è mio compito trovare candidati concorrenziali». Effettivamente il solo personaggio che avrebbe potuto impensierirlo, per solidità politica e legami con settori dei «poteri forti» russi, l’ex ministro delle Finanze Alexey Kudrin, ha già da mesi deciso di evitare lo scontro frontale. E poi basterebbe dare un’occhiata alle «finestre politiche» dei telegiornali per capire come sia difficile che possano emergere candidati «forti»: il 71% dello spazio è dedicato a Putin, il 18% al primo ministro Medvedev, il 3% ai partiti di opposizione parlamentare.

A mettere del pepe sulla conferenza stampa ci ha pensato Xenia Sobcak, stella della Tv via cavo e figlia dell’ex sindaco di San Pietroburgo, che si presenta alle presidenziali come candidata filo-occidentale, quando ha chiesto spiegazioni sull’esclusione di Aleksey Navalny dalla competizione.

Putin invece di rimandare, come da copione, ai motivi legali dell’esclusione del leader populista che piace tanto ai giovani, ha perso le staffe: «Navalny… è solo un Saakashvili in salsa russa», ha detto Putin facendo riferimento all’ex presidente georgiano, oggi alla testa di un movimento anti-Poroshenko in Ucraina. «Volete che anche da noi si passi da una Maidan all’altra? Che ci siano tentativi di colpo di Stato? Sono convinto che questo non lo vogliono, la maggioranza dei russi». Un Putin stranamente scomposto che fa riflettere su quanta strada la Russia debba ancora fare per giungere a una democrazia compiuta.

Passando all’economia il capo del Cremlino ha snocciolato i risultati di 18 anni di governo del Paese: «Il Pil dal 2000 è cresciuto del 75%, la produzione industriale del 60%… i salari sono aumentati di 3,5 volte come del resto le pensioni… il nostro debito si è ridotto di tre volte e le riserve valutarie sono aumentate di 30 volte…». Putin ha anche sottolineato i risultati ottenuti sull’aspettativa di vita dei russi passata da 65 anni a 73 e sulla riduzione della mortalità infantile.

Dati impressionanti ma che si riferiscono essenzialmente ai primi 12 anni di governo. Da allora – con il calo del prezzo del petrolio e le sanzioni – la ruota ha iniziato a girare all’indietro. Per questo Putin si è premurato di tranquillizzare i russi sul ritocco della spesa militare che passerà da 45 a 46 miliardi di dollari nel 2018: «Non inciderà sulla spesa sociale», ha affermato. Già, perché fare i conti con il bilancio non è facile neppure a Mosca.

Nell’anno di elezioni però Putin ha già scelto le categorie sociali a cui garantire l’assalto alla diligenza della spesa pubblica. Dopo aver introdotto un assegno per le donne che faranno più figli, l’altro ieri ha aumentato del 3,4% gli stipendi di funzionari e impiegati statali (il 30,4% della forza-lavoro russa), una misura destinata a pagare nelle urne.