«Ma adesso, arrivati finalmente al Trianon, chiamati per misteriose vie a recitare da un mondo all’altro ‘sta Cantata con un pubblico assente in pandemia senza fischi e senza battiti di mano senza chi ci senta e chi ci veda, alla cieca, considerando queste esibizioni una partita a tressette con il morto…». Così recita Razzullo, una maschera napoletana, uno straordinario mutevolissimo Oscar Di Maio, a metà dello spettacolo, il testo originale, in napoletano, è stato qui tradotto in italiano. La maschera si confronta poco dopo con Sarchiapone, una marionetta di Flavia D’Aiello, e la memoria va alla Cantata dei pastori che nel 1977 Roberto De Simone portò sulle scene napoletane, con la Nuova Compagnia di Canto Popolare, e un irresistibile Peppe Barra. La Cantata dei Pastori, che Andrea Perrucci mise in scena per la prima volta nel 1698, mescola elementi della tradizione colta del melodramma ed elementi della canzone popolare.

DE SIMONE LA RISCRIVE da capo, non fa un’operazione di recupero filologico, alla quale non ha mai creduto, ma reinventa in chiave e con strumenti moderni lo spettacolo insieme colto e popolare. E qui sta il segno della sua invenzione: il passato non si può ripetere ma solo inventarlo da capo con altri strumenti. Ecco così accostati, per esempio, Pergolesi e la tarantella popolare, ma né Pergolesi né la tarantella restituiti in quella che fu la loro realtà storica, bensì restituiti come musica, canto e recitazione di oggi. Sentire Pergolesi accompagnato da una fisarmonica o da un bandoneón a qualcuno farà orrore, ma forse il pubblico ne gode immensamente. Il teatro è restituito alla sua realtà d’invenzione, di declamazione e rievocazione blasfema. La storia di Maria, Michele Imparato, e di Giuseppe, Pino Mauro, che cercano una stanza dove fare nascere il bambino Gesù, ostacolati dal machiavellico diavolo Belfagor, Rosario Toscano, è inframezzata dall’esibizione di virtuosi evirati – ma per fortuna oggi non si fa più e a cantare è un soprano, Maria Grazia Schiavo, bravissima, tutta tesa com’è a restituire non già l’espressività della melodia, bensì, ed è ciò che andava a sentire il pubblico, il virtuosismo pirotecnico del canto di agilità o la soavità melliflua e suadente del canto lamentoso. Ma attenzione: la vivacità delle passate rappresentazioni, ci avverte Razzullo, in epoca di pandemia, in un teatro senza pubblico che faccia sentire applausi e fischi, è irriproducibile. Oggi ciò che si vede e si ascolta allo storico teatro Trianon, il teatro della canzone napoletana, dove ha recitato Raffaele Viviani, si rappresenta una Trianon Opera, «tra pupi, sceneggiata e Belcanto». Si ascoltano così la Sinfonia dal mottetto in pastorale Quem vidistis pastores, 1737, di Carmine Giordani; «Lieto così talvolta» dal dramma per musica Adriano in Siria su libretto di Pietro Metastasio, 1734, musica di Giovanni Battista Pergolesi, del quale si ascolta anche «Ogni pena più spietata» da Lo frate nnammorato, 1732, e «Quando corpus morietur» dallo Stabat mater, 1736. Completano la rassegna arie di Riccardo Broschi, Domenico Cimarosa, Leonardo Vinci1, Vincenzo Bellini, Wolfgang Amadé Mozart, del quali si ascolta anche l’aria della Regina della Notte in versione solo strumentale.

LO SPETTACOLO, nel piccolo, delizioso teatro, che oggi si chiama Trianon Viviani, trasmesso su Rai 5 il 30 aprile e ora in streaming su Raiplay, ha davvero un carattere quasi funereo, una partita a tressette con il morto. E anche in questo il senso del teatro di De Simone si rivela appieno, uno specchio della situazione in cui si recita. Alessandro De Simone dirige con brio e precisione i solisti dell’Orchestra La Nuova Polifonia. Restituiscono il senso del presepe le scene di Gennaro Vallifuoco. Ma il tutto reca la firma inconfondibile di Roberto De Simone. La sua risata ha sempre un retrogusto di perdita, di nostalgia, di dolore.