Un anniversario che suona molto strano. Quarant’anni dall’esplosione del punk, festeggiati in Inghilterra, dove storicamente non è nato e, soprattutto, la commemorazione di un movimento controculturale è sempre una contraddizione in termini. Se proprio si vuole insistere con un luogo di nascita del punk si dovrebbe guardare a Detroit, agli Stooges di Iggy Pop o agli Mc5, a quel proletariato urbano sviluppatosi sotto l’industria di Henry Ford e quella bellica della seconda guerra mondiale. Per poi spostarsi a New York, al CbGb, e ai Ramones. Questo a larghe maglie, giusto per orientarsi e far capire come Londra sia stato uno step successivo, forse più suggestivo in fatto di criteri estetici e spettacolarizzazione. La stessa regina Elisabetta – quella contro cui i Sex Pistols cantarono davanti a Westminster nel 1977 in una barca sul Tamigi – ha dato il suo patrocino alle celebrazioni in un’operazione che potrebbe essere paragonata alla mostra sulla street art piazzata dentro al museo della Storia di Bologna. Una perimetrazione che non rende mai giustizia e che, in ogni caso, tende a controllare un movimento completamente fuori dagli schemi di quegli anni.

Quello che è stato il punk è indefinibile specialmente quando lo si circoscrive dentro la provocazione e la trasgressione. Non lo è quando invece si sposta l’accento sull’aver fatto emergere i limiti di quel benessere diffuso che in pochi riuscivano a scorgere: la distanza fra ricchi e poveri, il conformismo, lo Stato e la televisione come subdola repressione. E fuori dal disagio sociale e psichico dell’epoca, il tutto lo si potrebbe semplificare con le parole di Billy Idol: «Il punk non morirà mai. È questione di attitudine». Come a dire ci sarà sempre nella storia chi cercherà di rovesciare il tavolo per essere fuori dalle regole, che poi abbiano delle creste o spille da balia infilzate nei giubbetti di pelle, poco importa. E a confermarlo anche Patti Smith quando disse: «Penso che Mozart fosse un punk rocker. È solo uno stato mentale». Uno stato mentale che, per dirla con Strummer, cambiò il modo di vivere di tante persone senza assaltare un palazzo. E forse per questo in parecchi si sono risentiti di questo anniversario, uno fra tutti il figlio del manager dei Pistols Malcolm McLaren (che resta uno dei protagonisti più ambigui della scena), Joe, ha dichiarato che il 26 novembre (ricorrenza dei quarant’anni dall’uscita di Anarchy in the Uk) brucerà a Camden milioni di sterline di gadget e dischi punk, contro l’istituzionalizzazione del movimento.  

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Anche in Italia a qualcuno è venuta la pelle d’oca, come a Marco Philopat, autore di Costretti a sanguinare (pubblicato nel ’97 da Einaudi e ora ripubblicato in versione aggiornata da Agenzia X), il romanzo italiano di culto che forse ha meglio raccontato come quel movimento si sia riversato anche nella nostra penisola ma con risvolti molto più politicizzati, già che si usciva dagli anni di piombo: «Il punk è sempre stato saccheggiato dagli squali dello showbiz e quindi non ci deve sorprendere questo tentativo postumo di sfruttare l’ultima onda trasgressiva, barando sulla data di nascita». Per questo quando si guarda all’Inghilterra non si può non pensare all’influenza che i Crass (formatisi nel ’77 nell’Essex, contrapposti nel movimento ai Clash e ai Sex Pistols, in quanto questi ultimi considerati punk dallo slogan facile, incapaci di azione) hanno avuto da noi, facendo proseliti della filosofia anarchica anche dall’aspetto più pratico. Non a caso, come spiega Philopat, i Crass furono il riferimento per la nascita del centro sociale Virus di Milano: «Quando giravamo all’estero e incontravamo altri punk in Inghilterra, Francia o in Germania non riuscivamo a capire come mai loro erano così disinteressati alla politica rivoluzionaria. Noi italiani venivamo da un altro ambiente, molti di noi avevano già frequentato i centri sociali e ci pareva assurdo vedere i concerti punk dentro le situazioni commerciali o istituzionalizzate. Con l’arrivo dei Crass ci siamo sentiti sollevati. Però anche dagli Stati Uniti venivano dei segnali in quel senso: dai Dead Kennedy’s sulla costa ovest e dai Minor Threat da quella est».

I Crass erano un collettivo e una comune che viveva in autogestione e sono stati fra i pochi che hanno dato seguito alla regola del punk, il «Do it Yoursef», facendone una pratica quotidiana in cui la propaganda pacifista a favore del Terzo Mondo o degli animali, contro l’oppressione, l’esercito, il nucleare, la Chiesa, la disoccupazione (altissima in Inghilterra a fine anni ‘70), l’alienazione, il patriarcato e il sessismo, non doveva scindersi dalla musica. E poi stava iniziando l’epoca Thatcher. La band aveva Penny Rimbaud (Jeremy John Ratter) come leader, e con l’ascesa dei Sex Pistols e dei Clash, pensarono di avere finalmente un supporto alle loro idee ma ben presto si accorsero che: «Non erano altro che dei fantocci: a loro faceva piacere illudersi di derubare le grosse case discografiche, ma nella realtà era la gente a essere derubata.

Non aiutavano altri se non se stessi, dando vita a un’altra moda facile». L’idea di autoproduzione stessa nacque dai Crass con la loro etichetta Crass Records (in cui si imponeva un prezzo di copertina sotto la metà della media per mettere in scacco le reti di distribuzioni ufficiali) dopo il rifiuto della stamperia di incidere il loro primo album, The Feeding of the 5000, perché all’interno conteneva Reality Asylum (che loro stessi definivano «un attacco femminista»), considerata blasfema e che aggirarono sostituendo polemicamente la traccia con The Sound of Free Speech (Il Suono della Parola Libera), due minuti agghiaccianti di totale silenzio. Contrasti che si rafforzarono nell’84 quando pubblicarono How does it feel to be the mother of a thousand dead? (Come ci si sente a essere la madre di mille morti?) in ricordo della guerra delle Falkland e diretta contro la Thatcher. Il Partito Conservatore reagì parlando di un prodotto antinazionalista e osceno, che superava i limiti della libertà di parola, eppure in pochi giorni vendettero 30mila copie. Dalla nuova etichetta partirono gruppi come i Kukl (con Björk alla voce), i Conflict o le Poison Girls, con cui in tantissime occasioni condivisero il palco e progetti. Con i loro concerti contribuirono all’apertura di circoli anarchici e a campagne in favore dei diritti degli animali o a fondi per gli anarchici detenuti, ogni causa che sentivano vicina alla loro filosofia poteva contare sull’appoggio dei Crass. Coerenza impeccabile anche nel rifiutare i contratti delle major che avevano intuito che la rivoluzione si poteva vendere benissimo. 

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Ben presto i Crass decisero di cambiare il loro look, abbandonare quella che ormai consideravano la moda punk: «Decidemmo di vestirci di nero per protestare contro il pavoneggiarsi narcisistico della moda punk, iniziammo a utilizzare video e filmati durante i nostri spettacoli, ci dedicammo alla stampa di volantini per spiegare le nostre posizioni e pubblicammo un giornale, International Anthem. E per smentire le voci messe in giro dalla stampa, secondo cui non eravamo che degli estremisti di destra e/o di sinistra, decidemmo di attaccare dietro il palco ai nostri concerti, una bandiera col simbolo dell’anarchia». E l’immancabile logo, una croce di serpenti. Una situazione generale che li escluse dai circoli della musica che contava, come il Roxy Club, si orientarono quindi verso la periferia, i centri sociali e in locali illegali, da loro stessi occupati come lo Zig-Zag club a Westbourne Park. Quello che i Crass tentarono di fare era mettere le persone di fronte a delle scelte, se stare dalla parte dell’immagine, della retorica degli sfattoni nichilisti senza alternative o quella di operare consapevolmente nel mondo. Andare contro, ma con la coscienza di farlo, e soprattutto in autonomia. Antagonismo e attivismo punk.