“Questa crisi sta disilludendo chi ha cercato di affrontarla puntando su se stesso”. Renato Mattioni, segretario della Camera di commercio di Monza e Brianza interpreta così i dati raccolti dal suo studio sui fallimenti.

Che cosa si nasconde dietro quelle cifre?

Il numero che colpisce di più è la percentuale di fallimenti tra le imprese giovani. Noi le chiamiamo le imprese figlie della crisi. Molto spesso i titolari sono inoccupati, precari, cassaintegrati, disoccupati che però non hanno voluto restare passivi, con le mani in mano. Anche da un punto di vista personale hanno preferito rischiare piuttosto che vivacchiare magari chiedendo aiuto alla famiglia o ricorrendo alla pensione della nonna. Alcuni hanno tentato di trasformare un hobby in un’attività o di fare in proprio ciò che facevano da dipendente prima di perdere il posto. Le potremmo anche chiamare imprese proletarie o auto-imprese.

Ma non ce l’hanno fatta, perché?

Ovviamente per la crisi, con in più il fatto che si sono dovuti inserire in settori già maturi e che prevalentemente si sono dovuti rivolgere al mercato interno molto penalizzato dal calo dei consumi. Ma qui non si tratta solo di imprese ma della difficile condizione esistenziale di persone che subiscono un doppio fallimento. Prima espulsi dal mondo del lavoro come dipendenti e poi come piccoli imprenditori. Non a caso noi abbiamo affiancato uno psicologo per la gestione di questi casi e abbiamo fatto corsi di formazioni per chi vuole fare l’imprenditore. Le cosa che più mi ha impressionato è che quando chiediamo alle persone quanto si aspettano di guadagnare in tanti rispondono 1.500 euro al mese.

Eppure non si salvano neppure le imprese storiche, com’è possibile?

Intendiamoci. In Italia ci sono 6 milioni di imprese, il 90% delle quali con meno di 10 dipendenti, e quelle che aprono sono ancora di più di quelle che chiudono. Ma cambia il modello imprenditoriale. Nel caso delle imprese ultracinquantenni spesso il titolare è alle soglie della pensione e non riesce a tramandare l’impresa al figlio. Chiude non solo un’azienda ma una storia familiare. E anche un modo di vivere il territorio. Spesso questi sono piccoli commercianti e artigiani con una filiera corta dove conta il rapporto umano con il cliente. Invece adesso timidi segnali di ripresa riguardano solo chi esporta, mentre a livello locale funzionano il franchising o quelli che fanno servizi alla persona. Si tratta però di un modo di fare impresa molto volatile, congiunturale, che non è in grado di stratificare una capacità e una tradizione di lavoro duratura che può portarci fuori dall’abisso.