Pulcinella, ovvero archetipo della vigoria popolare, espressione degli istinti primordiali, antieroe ribelle e irriverente, simbolo della napoletanità, è una maschera che serba una doppia personalità. È l’ermafroditismo a svelarla, ben chiaro nell’aspetto. La parte superiore è da uomo: maschera nera con naso priapeo, camicione bianco da cui fuoriesce una maglietta rossa, pantaloni bianchi, cappello a punta, detto coppolone.

La parte inferiore è da donna: ventre gravido, natiche mastodontiche, gonnella. Pulcinella, ebbene, rappresenta non solo il maschile e il femminile, ma anche il caos e l’ordine, la luce e il buio, lo stupido e il furbo, il demone e il santo. La sua genesi è remota e, poiché accorpa realtà e leggenda a un fondato simbolismo esoterico, è difficile fornire una versione unica e definitiva. Il cappello, per esempio, ricorda il copricapo degli iniziati al culto del dio Mitra. Tra le numerose leggende c’è quella del poeta romano Virgilio Marone (70 a.C./19 a.C.) che fa derivare il nome Pulcinella da «Pulciniello», un pulcino dal naso adunco, la cui palese componente psicopompa rimanda a una figura che accompagna le anime dei morti nell’oltretomba.

Un’altra leggenda lo relaziona con Puccio d’Aniello, detto anche Paoluccio della Cerra, un contadino di Acerra (Na) che nel Seicento si guadagnava da vivere facendo il buffone in una Compagnia teatrale di passaggio. Il primo probabile dipinto di Paoluccio della Cerra, detto comunemente Pulcinella, è un’incisione di Carlo Enrico di San Martino (?/1726) basata su un ritratto perso di Ludovico Carracci (1555/1619). Secondo altri studi, Pulcinella ha origini ancor più lontane.

Si vuole che il nome discenda da ‘Maccus’, interprete delle Fabulae Atellanae, farse popolari risalenti al IV secolo a.C. e ideate dalle popolazioni osche (antiche popolazioni della Campania), in particolare da quella di Atella (Ce), da cui deriva il nome. In queste commedie vernacolari, Pulcinella è raffigurato con la faccia bitorzoluta, naso a becco, ventre prominente e voce in falsetto simile a quella della chioccia; la maschera nera simboleggia gli antichi culti agrari e la curvatura del naso richiama il culto fallico del dio Priapo, chiara espressione della fertilità maschile. Un’altra analisi, riconducendo la maschera di Pulcinella al culto di Dioniso, evidenzia che il nero significa anche morte: un ciclo di vita che finisce per far posto a uno che principia.

Ciò trova conferma nelle parole del Maestro Roberto De Simone (1933): «Le maschere esprimono profondamente la morte. L’abito bianco, che è un abito iniziatico in molte culture, è considerato tale proprio perché indica la condizione di morte col quale l’iniziato entra nel rituale. Un tale abito si riscontra anche nei tarantati di Puglia, nei fujenti della Madonna dell’Arco, negli abiti battesimali o da comunicandi. Per le altre relazioni con la morte il suo stesso nome associa questa maschera ai gallinacei e si sa come nelle antiche culture questi animali fossero collegati a divinità infere (Proserpina, Ecate, ecc.) ».

Se si parla di Pulcinella come personaggio del Teatro della Commedia dell’Arte, egli nasce ufficialmente con l’opera del commediografo e attore Silvio Fiorillo (seconda metà sec. XVI/inizio sec. XVII) La Lucilla costante con le ridicole disfide e prodezze di Policinella, scritta nel 1609 ma pubblicata nel 1632 dopo la morte dell’autore, e ispirata al succitato Puccio D’Aniello. Tra i numerosi interpreti di Pulcinella si ricordano: Andrea Calcese (1595/1656), Michelangelo Fracanzani (1638/1698), Filippo Cammarano (1764/1842) e Antonio Petito (1822/1876). Quest’ultimo, drammaturgo, regista e attore nonostante il proprio semianalfabetismo, resta uno degli interpreti più validi e apprezzati dell’Ottocento della maschera teatrale per aver saputo coniugare mirabilmente mimica, ironia e critica sociale. Ha lasciato un ‘corpus’ di commedie incentrato sui temi della società napoletana del suo tempo.

Come suddetto, la maschera di Pulcinella, il trickster partenopeo, esprime fortemente la morte: ogni individuo, mostrandosi diverso da com’è nel quotidiano, annienta l’Io che abitualmente lo caratterizza; di contro, vivendo la parte celata e repressa di sé, egli svela l’Io che solitamente è morto. È una ritualità: attraverso la funzione antropologica e mitopoietica della maschera l’individuo prende consapevolezza dei tabù psico-culturali, li supera ed elimina l’inquietudine. Anche nella Canzone di Zeza, azione teatrale e popolare interamente cantata, connessa alla ritualità del carnevale campano, si ritrovano Pulcinella, la moglie Zeza (diminutivo di Lucrezia), la figlia (chiamata Tolla nella tradizione scritta, Vicenzella in quella orale), e di don Nicola Pacchesicco, pretendente di Tolla/Vicenzella.

Tale rappresentazione potrebbe risalire al 1500, se la si associa alle villanelle per la struttura delle strofe verbali: «Zeza vi ca io mo esco/statte attient’a sta figliola/tu ca si na mamma dalle bbone scola». Si rileva all’istante la forma ABB, tipica della più autentica villanella del 1500. Ciò non significa che la Canzone di Zeza nasca nel 1500, ma presumibilmente sia preesistita nella cultura contadina e suburbana, trasmessa con la forma assunta a Napoli in epoca vicereale e poi diffusa con disparate varianti nelle zone rurali delle province della Campania.

La maschera di Pulcinella è una stratificazione di antichi culti e significanti, che nello scorrere dei millenni si sono amalgamati, intessuti in modo composito. Raffigura il principio del caos e del disordine, ovvero la forza che libera dai tabù e dai limiti richiamando alla mente vari archetipi. I mutamenti più consistenti alla maschera di Pulcinella li ha apportati indubbiamente Antonio Petito (poc’anzi nominato), perché ha sovrapposto elementi di indumenti militari o borghesi al fine di adattare il costume a svariati personaggi. La maschera diviene uomo e in un certo senso muore. Da questa prospettiva assume valore simbolico la morte di Petito, nei panni di Pulcinella, avvenuta la sera del 24 marzo 1876, al teatro San Carlino. Sembra che con lui muoia anche il personaggio che, terminato il lungo e greve tragitto da maschera a uomo, è obbligato a fronteggiare non più in chiave simbolica e rituale l’inevitabile appuntamento con la morte. Di ciò è più che convinto l’antropologo e drammaturgo Annibale Ruccello (1956/1986): «Dopo Petito inizierà il definitivo declino di Pulcinella. Ridotto a rappresentante del più logoro folklore e dei più beceri luoghi comuni su Napoli e sui napoletani, sopravvivrà, con tutta la sua valenza demoniaca ed infernale, solo nei carnevali popolari, in campagna, ritornando cioè là dove era partito».