«Vengo, ci vediamo là. No, non mi va, non vengo». Non è Moretti nella mitica scena di Ecce Bombo, bensì Puigdemont nei panni del protagonista dello psychothriller in cui si è trasformato questo tira molla per l’indipendenza della Catalogna. Alla fine, dopo un belletto di conferme e smentite, il presidente della Generalitat non andrà in Senato, dove venerdì si approverà l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione, che consente all’esecutivo di Rajoy di prendere il controllo dei gangli vitali del governo catalano. Ed è – nonostante l’aurea di feticcio magico che la parola ha assunto nelle ultime settimane – l’ennesima occasione di dialogo persa, perché Puigdemont rinuncia così a esporre davanti alla Camera alta le argomentazioni del govern contro il famigerato 155. «Tanto – ha fatto sapere il president – a Madrid hanno già preso la decisione di applicarlo».

Le fasi decisive della partita si giocano ora parallelamente su due tavoli distinti, secondo una tempistica meticolosamente studiata dalla Generalitat: in contemporanea con i lavori del Senato – che iniziano oggi e culmineranno domani – si riunirà infatti anche il Parlamento catalano, che attenderà la decisione (praticamente scontata) di Madrid per far sapere finalmente su che binario intende proseguire. Le possibilità sono tre: la prima, l’unica che potrebbe evitare lo scontro frontale Barcellona-Madrid, nonché l’unica che rientrerebbe nella legalità costituzionale, consiste nella convocazione di nuove elezioni regionali entro sei mesi; il Psoe, tramite la sua presidente Cristina Narbona, ha fatto sapere ieri che i socialisti ritirerebbero l’appoggio al 155 nel caso in cui si dovesse verificare quest’ipotesi, lasciando tuttavia intendere che il Pp potrebbe invece mantenere la linea dura anche in questo caso. La via intermedia, passa anch’essa dalle urne: in questo scenario si andrebbe a delle elezioni costituenti, che, però, come ha già precisato Moncloa, non frenerebbero il ricorso al 155: in tal caso Puigdemont subordinerebbe la dichiarazione di indipendenza a un’eventuale vittoria del blocco indipendentista nelle consultazioni; la terza, la più drastica, sarebbe invece l’immediata dichiarazione unilaterale di indipendenza (questa volta in versione integrale, dopo il conato dello scorso 10 ottobre), i cui esiti, con l’esecutivo autorizzato dal 155 al ricorso al pugno di ferro, sarebbero imprevedibili e pericolosi.

Tra gli indipendentisti, l’imminenza dell’ora della verità sta creando forti tensioni: nella riunione convocata d’urgenza ieri sera da Puigdemont con esponenti del suo governo sono emersi più netti che mai i contrasti tra lo zoccolo duro del secessionismo e le correnti più moderate; il tutto mentre i più incendiari tra i generali separatisti, cercano di innalzare ancora di più la tensione: il vicepresidente della Generalitat Oriol Junqueras, in una dichiarazione all’agenzia Ap, ha affermato che Madrid «non ha lasciato alla Catalogna altra scelta se non quella di dichiarare una repubblica, e il suo partito lavorerà alla sua costituzione in virtù del mandato democratico che gli è stato conferito». Dichiarazioni dello stesso tenore anche da parte della Cup, che ha ribadito via Twitter che la «proclamazione della Repubblica Catalana è l’unico modo di mantenere fede al mandato elettorale». Già ieri davanti al davanti al Palau della Generalitat si sono concentrati i primi fedelissimi repubblicani, convocati proprio dalla Cup e dai Comitati per la difesa del Referendum. Ovviamente, sono previste manifestazioni anche per venerdì: a convocarle è l’Asemblea Nacional Catalana (il cui leader Jordi Sánchez è agli arresti per sedizione insieme a Jordi Cuixart, a capo dell’altra organizzazione catalanista maggioritaria, Ómnium Cultural), che ha chiamato il popolo indipendentista alle porte del parlament: «Sarà un giorno epocale – scrivono sulle reti sociali – e ci aspettiamo una grande partecipazione per salutare la Repubblica».