Se Puigdemont fosse un attore, si direbbe che padroneggia i tempi della scena. Come nessun altro politico, è capace di creare suspanse, di far pender tutti dalle sue labbra, di mantenere i riflettori accessi su di lui e su un processo che sta diventando sempre più kafkiano. Doveva essere il giorno delle decisioni irrevocabili, e invece il president della Catalogna si è svincolato un’altra volta dalla stretta della storia. Nella mattinata di ieri aveva annunciato che sarebbe comparso alle 12 per comunicare la decisione della Genaralitat in risposta alla minaccia del 155: elezioni o indipendenza. La piazza Sant Juame, dove sorge il palazzo della Generalitat in cui il governatore catalano era rinchiuso da mercoledì sera, si riempie di persone, studenti per lo più, avvolti nella estelada: ci credono. Dopo la delusione del 10 ottobre, con la dichiarazione sospesa, il tiepido mezzogiorno di una giornata d’autunno, potrebbe arrivare l’alba della repubblica catalana. E invece, no.

Alle 2, di Puigdemont, ancora nessuna traccia, ma tutti dicono che il dado è tratto: si andrà a votare a dicembre. Il pericolo di uno scontro frontale con Madrid sembra essere scongiurato, ma la piazza secessionista la prende male. Macché: Puigdemont fa sapere che non comparirà. Scende il gelo, poi le grida di «Puigdmont traditore». Ma anche chi sperava nell’illuminazione in extremis, nella frenata sull’orlo del baratro, resta di ghiaccio. La possibilità delle elezioni – l’unica via legale per sbloccare l’impasse e scongiurare l’applicazione del 155 – sembra svanire.

 

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Per la conferma bisogna aspettare le 5. Questa volta Puigdemont affronta i microfoni e si esibisce in un’altra delle sue acrobazie linguistiche: la sostanza è che non ci saranno elezioni; sul perché, la solita cortina di fumo. Il president parla «di mancanza di garanzie», rimettendo la decisione sul da farsi al parlamento catalano, convocato per le 6. Ma a quali garanzie si riferisce il capo del governo catalano? Difficile dirlo, ma è probabile – considerando anche l’accenno alla repressione dello stato centrale – che il riferimento fosse alla scarcerazione di Jordi Sánchez e Jordi Cuixart e al ritiro della polizia spagnola dalla Catalogna, oltre ovviamente all’assicurazione della sospensione del 155, la vera condicio sine qua non per la convocazione delle elezioni.

PERÒ DA MADRID, l’«apriti sesamo» che potrebbe spalancare le porte dei seggi non viene pronunciato. Il messaggio della sospensione del 155 non arriva, e senza questa garanzia Puigdemont non può convocare elezioni: sarebbe una resa incondizionata e l’indipendentismo non glielo perdonerebbe (né permetterebbe).

Di nuovo al punto di partenza, con la sensazione che entrambe le parti vogliano arrivare allo scontro frontale, con buona pace delle volenterose profferte di mediazione da parte dei nazionalisti baschi del Pnv e di Podemos. D’altronde, sia l’indipendentismo che il governo centrale hanno ancora qualcosa da guadagnare dallo stato di conflitto: i secessionisti sanno che le elezioni (sia pure senza lo spettro del 155) rappresentano una secchiata d’acqua fredda sul process e sull’entusiasmo della sua base di fedelissimi; senza contare che se si andasse al voto, Puigdemont non avrebbe probabilmente l’appoggio delle forze indipendentiste più radicali che ora compongono il suo governo, deluse dai tentennamenti del president; l’esecutivo spagnolo, invece, sa che lo stato di tensione legittimerebbe il ricorso al 155, in cui Madrid vede un’occasione unica e irripetibile per sbarazzarsi una volta per tutte del governo di Puigdemont e prendere il controllo di mezzi di comunicazione (fondamentali in caso di elezioni) e forze dell’ordine. Su questo punto, però, è in corso una guerra nella guerra. Sul fronte spagnolista Psoe e Pp litigano sul come e sul se ricorrere al 155: i socialisti vorrebbero sospendere l’applicazione dell’articolo se il Parlament decidesse finalmente per la chiamata al voto; mentre il Pp ha intenzioni di andare fino in fondo e – urne o non urne – utilizzare tutti gli strumenti legali a disposizione, per «ristabilire la legalità» in Catalogna. Ma anche, leggendo tra le righe, per riaffermare la sua posizione di forza e ridurre lo spazio vitale dei socialisti.

OGGI SARÀ, e questa volta davvero, il giorno della verità: il Senato (in cui il Pp ha maggioranza assoluta) dovrà decidere sull’applicazione o la revoca del 155, e sarà interessante sapere come voterà il Psoe, che su questo bivio si gioca buona parte del suo futuro politico; contemporaneamente, il parlament dovrà scoprire le carte e dichiarare quale strada intende intraprendere: da una parte la via legale delle elezioni; dall’altra (sempre che qualche franco tiratore nel blocco indipendentista non voti contro all’ultimo momento), quella dell’indipendenza, che nessuno sa dove porta.