Si respira lo stesso clima da guerra imminente, come due anni fa quando, era giugno anche allora, tre giovani coloni ebrei furono rapiti e uccisi in Cisgiordania e a Gerusalemme un gruppo di israeliani si vendicò bruciando vivo un adolescente palestinese. Rastrellamenti, raid militari e tensione nel giro di qualche settimana sfociarono nell’offensiva israeliana “Margine protettivo” contro Gaza e Hamas. Sono molte le analogie tra quel periodo e il dopo attentato al Sarona Market di Tel Aviv, a poche decine di metri dal ministero della difesa, dove mercoledì sera due cugini palestinesi, Mohammad e Khaled Mukhamra, di Yatta, nel sud della Cisgiordania, hanno aperto il fuoco sulla folla uccidendo quattro israeliani – Michael Feige, Ilana Naveh, Ido Ben Ari e Mila Mishayev – prima di essere bloccati dalla polizia. A partire dall’ordine dato dal premier israeliano Netanyahu e dal neo ministro della difesa Lieberman di inviare altri due battaglioni nei Territori occupati fino alla revoca dei permessi di ingresso per 83mila palestinesi della Cisgiordania e 500 di Gaza concessi in occasione del mese di Ramadan. Lieberman inoltre ha bloccato a tempo indeterminato la restituzione alle famiglie dei corpi dei palestinesi uccisi da polizia ed esercito e ha invocato la demolizione delle case degli attentatori entro 24 ore.

I due battaglioni con ogni probabilità saranno dispiegati nel distretto di Hebron, la città-capitale dell’Intifada palestinese, in particolare intorno a Yatta. Secondo i media israeliani in questa parte della Cisgiordania a ridosso della “linea verde”del 1967, la barriera di separazione, cioè il Muro, non sarebbe impenetrabile. E ciò avrebbe consentito negli ultimi mesi a diversi palestinesi di Yatta, come i due cugini Mukhamra, e dei villaggi vicini di entrare senza particolari problemi in Israele e di raggiungere Tel Aviv che dista solo 75 km. Lieberman, durante la visita sul luogo dell’attentato, ha assicurato che non si accontenterà delle parole. Non è chiaro se Israele deciderà di andare un nuovo scontro diretto con Hamas. Il movimento islamico non ha rivendicato ufficialmente l’attacco di Tel Aviv. Ha elogiato gli attentatori e non è chiaro se stia avendo un ruolo effettivo nella presunta trasformazione armata dell’Intifada. Gli stessi analisti israeliani dubitano che la sparatoria di mercoledì sera abbia avuto una vera regia politica. «Gli attentatori sono probabilmente di Hamas tuttavia gli islamisti da ottobre ad oggi non sono riusciti ad andare oltre qualche attacco realizzato con armi prodotte in modo artigianale», afferma il generale israeliano Yaacov Amidror, esperto di sicurezza nazionale con un passato nell’intelligence militare. «Quanto è accaduto a Tel Aviv – aggiunge Amidror – non è legato alle situazioni di Gaza e non credo che sfocierà in un altro ampio scontro militare tra Israele e Hamas».

L’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen ha condannato l’attacco di Tel Aviv, proclamandosi contro le escalation di violenze dell’una e dell’altra parte. Tuttavia proprio in Fatah, il partito del presidente palestinese, non si condivide la scelta dell’Anp di condannare l’attentato senza metterlo in relazione alle politiche di occupazione di Israele che rendono difficile, molto spesso impossibile, la vita della popolazione civile in Cisgiordania e Gaza. «Quanto è accaduto a Tel Aviv è stata una risposta naturale alla violenza israeliana», ha commentato un portavoce di Fatah, Munir al Jaghoub. Israele – ha continuato il portavoce – «deve capire le conseguenze della demolizione di abitazioni, il trasferimento forzato di palestinesi, i raid dei coloni alla moschea di Al-Aqsa e gli omicidi a sangue freddo ai checkpoint». Anche il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) ha descritto l’attacco armato di due giorni fa come una «reazione naturale» e un «cambio di paradigma» dell’Intifada, sottolineando che il luogo della sparatoria – nei pressi del ministero della difesa – è un forte messaggio per il ministro Lieberman e che «la resistenza armata è la maniera migliore per ottenere i diritti dei palestinesi».

Non tutti i palestinesi condividono la lettura di chi vede la trasformazione dell’Intifada in una sollevazione armata. «L’Intifada è una continua resistenza popolare all’occupazione e quanto abbiamo visto a Tel Aviv rappresenta l’opposto», sostiene l’analista Ghassan al Khatib «in realtà siamo ancora di fronte ad atti individuali che non indicano l’inizio di una strategia diversa o di una svolta». Al Khatib esclude che l’attacco a Tel Aviv sia stato compiuto per ostacolare una ripresa, molto improbabile in verità, dei negoziati israelo-palestinesi. «Non credo che sia ragionevole arrivare a pensare fino a questo punto – dice l’analista palestinese – non diamo più significati del dovuto all’attentato dell’altra sera».