Gli avvertimenti minacciosi pronunciati lunedì dal primo ministro, il principe ‎Khalifa bin Salman Al Khalifa avevano dato un primo inquietante segnale. «Non ‎ci deve essere silenzio o ambiguità su coloro che minacciano i valori supremi della ‎nazione. La cospirazione contro il Bahrain è destinata a fallire», aveva proclamato ‎perentorio. I pochi oppositori ancora liberi della monarchia sunnita che regna su ‎questa piccola ma strategica isola del Golfo, credevano che quelle parole fossero ‎riferite agli slogan contro re Hamad bin Isa Al Khalifa apparsi la scorsa settimana ‎in alcune zone popolate da sciiti, come Sitra, Sanabis e al Daih. Ieri, al termine di ‎una notte di rastrellamenti e arresti, il procuratore generale ha rinviato a giudizio – ‎il processo avrò inizio il 3 ottobre – 169 persone accusate di aver dato vita a ‎‎”Bahrain Hezbollah”, una organizzazione simile al movimento sciita libanese ‎Hezbollah sponsorizzato dall’Iran, il “nemico” sulla sponda opposta del Golfo ‎accusato di fomentare la rivolta contro la monarchia. Tehran nega.‎

‎ Il Bahrain si è svegliato con la notizia della gigantesca retata avvenuta nella notte ‎e se in apparenza nella zona di Bab Bahrain, il cuore commerciale della capitale ‎Manama, ieri tutto scorreva uguale agli altri giorni, la notizia era sulla bocca di ‎tutti. Oltre 100 persone sono già in carcere. Le accuse variano dal tentato omicidio ‎alla detenzione di armi fino alla cooperazione con la Guardia rivoluzionaria ‎iraniana. L’operazione, non casualmente, è scattata dopo le accuse rivolte dall’Iran ‎alle monarchie del Golfo di aver finanziato e armato i terroristi che la scorsa ‎settimana hanno compiuto il sanguinoso attacco di Ahvaz. Potrebbe anche essere ‎volta a rilanciare le accuse contro Tehran in occasione dei lavori dell’Assemblea ‎annuale dell’Onu che, nelle intenzioni del presidente Usa Trump e delle monarchie ‎sunnite del Golfo, deve rivelarsi un tribuna da dove mettere ulteriormente sotto ‎pressione l’Iran. I bahraniti dissidenti pur non escludendo del tutto l’esistenza di ‎organizzazioni militanti, ricordano però che anche gli anni Novanta la monarchia ‎aveva reagito ai sussulti della popolazione scatenando una campagna di arresti ‎contro presunte formazioni armate. «La dura realtà è che il Bahrain sta diventando ‎come il Cile di Pinochet, con la gente che ha paura persino di parlare e con spie ‎ovunque», ci diceva ieri un attivista che ha chiesto di restare anonimo.

‎ Popolato in maggioranza da sciiti ma dominato dalla minoranza sunnita che fa ‎capo a re Hamad, il Bahrain negli anni trascorsi dalle proteste pacifiche del 2011 ‎in Piazza della Perla ha visto un progressivo e inquietante aumento della ‎repressione e la negazione di diritti politici ed umani. La monarchia dopo aver ‎dato l’illusione di voler avviare un processo di riforme ha scelto il pugno di ferro. ‎Ha fatto incarcerate gran parte degli oppositori, accusati di essere manovrati ‎dall’Iran, e chiuso i loro partiti, come il socialista Waad e lo sciita al Wefaq. I ‎progionieri politici sarebbero oltre 7mila.‎