Santiago Canton, capo della commissione d’inchiesta dell’Onu sulle centinaia di uccisioni e migliaia di ferimenti durante le manifestazioni palestinesi della Grande Marcia del Ritorno lungo le linee di demarcazione tra la Striscia di Gaza e Israele, ieri a Ginevra davanti Consiglio dei Diritti Umani è tornato ad esortare le forze armate israeliane a frenare l’uso di forza letale contro i dimostranti. L’intervento di Canton – che Israele ha respinto e che i palestinesi hanno accolto con favore – giunge in un momento delicato per Gaza. E non solo per l’aggravarsi della tensione con Israele in vista del 30 marzo, primo anniversario delle manifestazioni contro il blocco della Striscia. Gli ultimi giorni hanno visto proteste senza precedenti contro Hamas, che controlla Gaza dal 2007, che ha imposto tasse di ogni tipo insostenibili per la popolazione.

Alle proteste, cominciate il 14 marzo, il movimento islamista non ha risposto ascoltando le ragioni dei manifestanti. Incurante della posizione a sostegno dei manifestanti di tutti gli altri partiti, a cominciare dal marxista Fronte popolare, e delle condanne dell’Onu e di Amnesty, ha scelto l’uso della forza, le manganellate, i pestaggi, gli arresti e il coprifuoco in alcune località. Ieri la situazione è rimasta relativamente calma. «La gente vorrebbe protestare ma ha paura» ci dice uno stimato giornalista di Gaza che ci ha chiesto l’anonimato «molte decine di civili restano in prigione e con loro ci sono quattro dei 17 giornalisti arrestati per aver riferito o filmato le proteste. Un reporter, Osama Kahlout, è stato ferito con calci e pugni dai poliziotti. Sono finiti in carcere anche quattro attivisti di centri per i diritti umani. E la repressione non ha risparmiato neanche le donne».

Hamas sostiene che le manifestazioni sono istigate da militanti del partito rivale, Fatah, guidato dal presidente dell’Anp Abu Mazen, e da collaborazionisti di Israele. «Che Fatah stia soffiando sul fuoco del malcontento è in parte vero ed inoltre pesano i tagli ordinati da Abu Mazen agli stipendi di migliaia di ex dipendenti dell’Anp (a Gaza). Ma il motivo principale è che la popolazione è esausta, ha fame», aggiunge il giornalista. «I palestinesi di Gaza – prosegue – sanno che la loro condizione precaria è conseguenza soprattutto dell’assedio israeliano ma Hamas ha imposto tasse e altre misure che colpiscono solo i poveri e chi già stava male». Le statistiche dicono che oltre il 50% della popolazione di Gaza vive in completa miseria e il 65% in insicurezza alimentare.

In passato Hamas aveva affrontato proteste per la sua gestione della distribuzione della scarsa energia dell’elettrica ma mai, in 12 anni, ha fatto i conti con manifestazioni di protesta in tutta Gaza. Gli aiuti garantiti negli ultimi mesi dal Qatar, per decine di milioni di dollari, hanno solo tamponato una situazione insostenibile. Tre mesi fa l’esecutivo islamista aveva aumentato del 20% le tasse su circa 400 prodotti. Poi il 22 febbraio ha imposto nuove tasse ai commercianti che a loro volta hanno aumentato i prezzi dei prodotti, anche quelli di prima necessità. Le proteste perciò covavano sotto la cenere. Molti gazawi accusano Hamas di spremere i poveri a favore dei suoi apparati politici e militari e denunciano situazioni di privilegio per persone legate agli islamisti, a cominciare dal figlio del leader del movimento, Ismail Haniyeh. Non mancano voci di corruzione. Se ciò corrisponda al vero non è facile accertarlo. Di certo molti palestinesi di Gaza negli ultimi anni hanno visto Hamas impegnato soprattutto a rafforzare il suo potere e a partecipare da protagonista all’intrigato quadro regionale di alleanze contrapposte. «Una rivolta di massa però non ci sarà» spiega un analista «la gente non ha punti di riferimento. Per molti Hamas e Abu Mazen sono parte dello stesso problema, con le loro politiche aiutano l’occupazione israeliana».