Nelle stelle di Screen assegnate dai critici internazionali Fuocoammare di Gianfranco Rosi batte per ora tutti gli altri titoli del concorso anche se in testa poteva esserci il nuovo film di André Téchiné, Quand on a 17 ans, penalizzato invece dal giudizio negativo del critico russo (Anton Dolin di Afisha Daily). Una X che suona piú come «X rated», condanna sintonizzata con l’omofobia resa legge dalla politica putiniana. Perché «Avere 17 anni», uno dei più bei film del regista francese dai tempi del capolavoro Le Roseaux Sauvages (’94), è un romanzo di formazione e di scoperta della vita che si intreccia a quella della sessualità. Prepotente, furiosa, col cuore in gola e lo spavento di lasciarsi andare come solo quando si hanno diciassette anni. «Non si è seri a diciassette anni» scriveva Rimbaud nella poesia che uno dei protagonisti, Damien (Kacey Mottet Klein, lo abbiamo visto ragazzino in Home di Ursula Meier) recita davanti alla classe prima che tornando al suo posto uno dei compagni non lo sgambetti facendolo finire faccia terra. È Tom, scontroso, sempre di corsa, energia pura e solitudine. Bello, sensuale, senza la goffaggine degli adolescenti, ogni mattina scende dai monti fino a scuola , figlio adottivo di due fattori col sogno di diventare veterinario.

I due ragazzini si odiano, a scuola si picchiano continuamente, e intanto si annusano, misurano il proprio spazio e la propria paura: ogni pugno, livido, lotta è una carezza, un bacio, un amplesso, il desiderio che preme e che spaventa, la conoscenza di sè e della vita. Che scorre intorno a loro, dura, coi suoi dolori, i momenti di grazia, le sue sorprese. Il cuore che balza in gola e la paura del futuro, dei suoi cambiamenti, dei salti nel vuoto. E per quegli strani accidenti del caso le loro esistenze si avvicinano nonostante tutto: la madre di Damien è il medico del piccolo paese ai piedi dei Pirenei (Sandrine Kimberlain spigolosa e piena di dolce ironia), e prende in cura la madre di Tom, fino a proporre al ragazzo di vivere a casa loro, con lei e Damien, quasi provocando le loro reazioni come nella regia di un’improvvisazione e c’è molto di Techiné nel personaggio di Kimberlain).

Techinè racconta a partire dai corpi filmati con amore, quello del protagonista, straordinaria faccia nuova del cinema francese, Corentin Fila, una specie di caos che scompiglia gli universi e le certezze: intimamente legato alla natura in cui è cresciuto, le bestie, la fattoria, le montagne piene di neve, il lago dove si tuffa d’inverno anche se intorno si gela. A cui fa da specchio Damien, trattenuto e impacciato disorientato nel confronto sul bordo del gender con la sua sessualità. Thomas lo attrae ma: «Sono omosessuale o sei solo tu che mi piaci?».
Il cinema d’oltralpe ha un legame speciale con l’adolescenza, quasi che questo frammento dell’esistenza umana con le sue attese e la sua infelicità sia il terreno potenzialmente più ricco su cui sperimentare una narrazione. Coi rischi che comporta un tema infinitamente ripetuto, un mito, una leggenda, una raccolta di luoghi comuni, gli amori impossibili e la lotta confusa con l’età adulta.

Per questo il film di Techinè stupisce ancora una volta di più. È una storia d’amore, fisica e colta con pudore nella sua profonda segretezza. Ma è anche la scoperta della vita e del mondo che avviene attraverso la sessualità, nella liberazione del desiderio, nella conquista di una nuova libertà che è insieme fiducia nel mondo e in un futuro. Devi imparare a avere fiducia in te stesso e negli altri dice la madre a Damien.
Vita e morte, lutti e gioie si mescolano nelle vite dei due ragazzini durante i tre trimestri scolastici che scandiscono il racconto. E la realtà irrompe ogni passo nelle loro esistenze, anche in modo terribile.

Si può narrare il presente nell’amore? Sembra anche questo una sfida impossibile a meno che non sia orientata da un magnifico senso del cinema come quello che guida lo sguardo del regista.. Non c’è mai in ogni singola inquadratura di Techiné qualcosa di eccessivo, sentimentalismo a buon mercato, l’esibizione della sceneggiatura che tutto fa quadrare (tipico limite italiano). L’equilibrio complicato e prezioso, mai artefatto, è tra la scrittura precisissima nei toni, negli accenti dell’emozione, nei passaggi accelerati del regista insieme a Céline Sciamma (autrice dei bellissimi Diamante nero e Tomboy), di cui si sente la sensibilità raffinata a cogliere il sentimento di passaggio di ognuno dei personaggi e una messinscena quadratissima e insieme delicata. In cui la dimensione intima si spalanca sul presente,le guerre in cui la Francia è coinvolta coi loro morti di cui si parla sempre troppo poco – il padre di Damien è militare.

E sulla Storia, la guerra di Algeria, i pieds noirs, temi che si rincorrono nella poetica di Techiné in un’eco che rimbomba fino a oggi. Tutto questo però con leggerezza, nel flusso della vita che sembra impossibile catturare e di cui invece Techiné riesce a tradurre il respiro nelle sue immagini.

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Romanzo di formazione è anche L’avenir, di Mia Hansen-Love in cui la regista francese sembra ritrovare lo slancio di una narrazione limpida dopo le forzature del precedente Eden. Ancora una volta una storia familiare, che comincia con le immagini sbiadite di una vacanza al mare, a Mont Saint Michel, della protagonista – sempre splendida Isabelle Huppert – insieme a marito e figli piccolini. Li ritroviamo anni dopo, i figli sono cresciuti, i genitori – per i quali qualcuno dice l’ispirazione arriva dai genitori della regista – sono soli, lei perseguitata dalla mamma che è invecchiata, piena di ansie, sempre bellissima Edit Scob, capace di dormire col gatto Pandora tutto il giorno e spendere in un minuto fino all’ultimo centesimo in magnifici abiti per una particina in un film.

Lei, Nathalie (Huppert) è il contrario: severa con le sue gonne e i golfini, professoressa di filosofia che quando gli allievi scioperano fa lezione perché il suo desiderio non è fare la rivoluzione ma insegnargli a pensare con la propria testa. In passato è stata comunista cosa che oggi agli occhi del marito sembra una vergogna. Un ex allievo tra i suoi prediletti è attivista, vive in campagna, in una casa comune insieme a altri attivisti no global con l’utopia di una rivoluzione ancora possibile, o quantomeno di una resistenza che interroga il passato, le lotte armate e guarda alle possibilità del presente e al modo in cui inventare nuove forme di resistenza.

C’è molta filosofia nella costruzione del film, ma la dimensione letteraria è sempre quella prediletta da Hansen-Love. A differenza però di tutti gli altri film, concentrati su personaggi giovani, spesso ispirati alla propria esperienza, qui al centro c’è la figura di un donna più che cinquantenne colta anche lei in un momento di passaggio. Suona strano dire «romanzo di formazione» per l’età adulta eppure è così. Nathalie viene lasciata dal marito dopo trent’anni di matrimonio, la madre muore, la piccola collana filosofica che curava viene cancellata dai nuovi responsabili del marketing della casa editrice perché non rende abbastanza.

E i suoi allievi le propongono di scrivere per un portale di filofosofia on line cogliendola quasi di sprovvista. Mentre quei giovani che circondano il suo ex allievo e amico appaiono distanti, e lui stesso la critica duramente per non esprimere mai un pensiero e una maggiore radicalità che metta in discussione le sue certezze borghesi.

La cosa bella però di questo personaggio femminile è che nonostante i colpi e la fragilità non perde sé stessa inseguendo modelli o logiche lontane da sé. Non finisce a letto con il ragazzetto (tipica cosa dei maschi alla sua età) e semplicemente riparte da questa sua libertà – nel frattempo è diventata nonna – che è la solitudine e la gioia comunque del suo mondo che non vuol dire rinunciare alla propria vita. L’avenir è qualcosa di aperto, la scommessa è riuscire a coglierne le promesse.