È probabile che il concerto col quale AngelicA ha riaperto il teatro di Leo e la sua attività, possa essere ricordato come il migliore dell’intero anno nel suo calendario del 2016. Forse non è un gran merito, visto che nell’anno Angelica ha offerto ben scarse occasioni meritevoli di riguardo.

Si sa, l’indice di ascolto e quello di gradimento non camminano insieme, così accade quasi per necessità che il duo formato da Puglisi e Sommer, pianoforte e percussioni, non attiri più di una cinquantina di persone, ma ottenga da questo ridotto pubblico applausi di grande consenso per un concerto luminoso per intelligenza, equilibrio, fantasia nei suoni, nel fraseggio e allusivo a un ventaglio di sensi aperto alla varietà dei generi, ma non come questi banale, e coraggiosamente dedicato tutto all’ascolto reso eccitante da una continua riformulazione e rimodulazione dei modelli fondamentali da cui muove l’improvvisazione del loro reciproco accompagnarsi.

In uno degli ultimi numeri di Alias del sabato, c’era un articolo di Onori che, se il titolo non era fuorviante, pareva lamentare la chiusura in sé del jazz e invitare quanti praticano questa musica ad aprirsi a più ampie suggestioni. Non avendo letto il testo, non discuteremo idee che non conosciamo, ma in termini generali non possiamo dire che il jazz si sia chiuso in una sua specificità, ma piuttosto che si sia arenato in un territorio mitico, il be bop, improduttivo da anni, come terra salata. Sta risuccedendo da un po’ quel ch’era già accaduto negli anni Cinquanta quando i neofiti entusiasti tentavano di tenere il jazz negli usi del New Orleans, suonando un continuo revival. Nel corso degli anni, ma già con Jelly Roll Morton, nel jazz, dal sud-americano al kletzmer, è entrato di tutto con esiti alterni, ma con una rumoristica infinita. Il tutto va nello spettacolo e nella clowneria musicale dell’infaticabile Bollani, in caccia dei record concertistici di Fresu (quantitativamente imbattibili), in caccia anche lui di quelli che erano stati di Rava.

Prima della guerra scatenata dal nazismo, il jazz si ballava; dopo lo si è fatto sempre meno, oggi per niente affatto. Il che significa che ora non può che essere ascoltato, cioè che se non ballano le gambe, ballino i cervelli. Con Sommer e Puglisi questo può accadere a partire dai profondi stimoli monkiani, alla cui lezione Puglisi almeno s’è certo formato. Non c’è nulla di divistico in loro, di quel surrogato del pensiero per cui il divismo spesso scivola nello spettacolo. In Sommer l’ombra delle divertenti pagliacciate di Bennink; in Puglisi giochi dell’infanzia che rimandano piuttosto a Fluxus. La musica vive in durate che nasconde; naturalmente se non la si afferra, se sfugge o se è mero horror vacui avremo il vuoto e la noia.