Puccini, Ravel e le frustrazioni all’Opera di Roma
La messa in scena del mito, nel teatro greco, proponeva al pubblico questioni eterne – la guerra, la vendetta, il destino di ciascuno di noi – in una forma esemplare, ritualizzata. La sacre rappresentazioni medievali, il teatro rinascimentale italiano (Machiavelli, Annibal Caro, Ariosto, Giordano Bruno), il teatro elisabettiano, quello del Siglo de Oro, il teatro classico francese hanno via via posto interrogativi che ci commuovono e si spera ci commuoveranno per sempre. «Io non sono chi sono», dice Jago all’inizio dell’Otello di Shakespeare. Cosa lo spinge a odiare, a compiere il male? Verdi e Boito, quando trasformano la tragedia shakespeariana in melodramma, fanno di Jago un personaggio demoniaco.
«Credo in un dio crudel», il dio del male. Ciò ch’è sbagliato, nella società, nell’uomo, è di ispirazione fondamentale per il teatro. E dunque anche per il melodramma, che, negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi del Novecento, sembra addirittura ossessionato dal disordine delle passioni, dalle storture dei rapporti tra gli uomini, dall’ingiustizia sociale, accogliendo i dubbi, le angosce, e perfino le perversioni dei personaggi del teatro parlato. Ibsen, Strindberg, Maeterlinck, Wedekind, trovano un’eco in opere musicali percorse dalla stessa inquietudine: Salome di Strauss, Jenufa di Janácek, Erwartung di Schönberg, e, anche se in forma di balletto, Le sacre du printemps di Stravinskij.
Giacomo Puccini, del quale ricorre quest’anno il centenario della morte, visse le stesse angosce. L’opera che sancì il suo definitivo successo di pubblico, Manon Lescaut, andò in scena a Torino nel 1893, lo stesso anno in cui alla Scala di Milano veniva rappresentata l’ultima opera di Verdi, Falstaff. Entrambe le opere inaugurano il Novecento. Ma, a differenza della Manon di Massenet, leggera, sensuale, l’opera pucciniana mette in scena una duplice dannazione: della donna che da ragazza di buona famiglia, atto per atto si degrada a prostituta; e dell’uomo che è trascinato nel gorgo della sofferenza in cui lei precipita.
Come scrisse Fedele D’Amico, è la rappresentazione di un mondo senza Dio. Il teatro successivo di Puccini conferma questa visione, compresa la Bohème, in cui sulla scena agiscono gli esclusi dalla società. Il Teatro dell’Opera di Roma ha perciò pensato di celebrare il centenario del compositore italiano proponendo le opere del Trittico, ciascuna associata all’opera di un altro compositore, per far percepire il clima comune nel teatro europeo del tempo. Al Tabarro si è visto accostato l’anno scorso il Castello del duca Barbablù di Bartók, perché in entrambi i drammi la donna è vittima di appetiti sociali e sessuali che la distruggono. In chiusura, Suor Angelica si contrapporrà a Il Prigioniero di Dallapiccola, due reclusioni a confronto.
L’unica opera comica, ma di una comicità sinistra, Gianni Schicchi, la cui prima è andata in scena mercoledì scorso (repliche stasera, 13, 16 febbraio) si misura, quest’anno, con l’ironia solo apparentemente leggera, in realtà libertina, dell’Heure espagnole di Ravel. La messa in scena è stata affidata a Ersan Montag, che ha voluto mostrarci il mondo prima e dopo un’apocalisse. Bomarzo, minaccioso, è l’emblema dei mostri umani, pterosauri che attraversano il cielo. Clima un po’ alla Tim Burton, senza la sua genialità, però. Michele Mariotti ha penetrato con lucidità le perfidie e le meraviglie delle due partiture, l’asprezza dell’avidità borghese in Puccini, l’asciuttezza, ma anche la sensualità dell’eros in Ravel. Tra gli interpreti si ammira un perfetto accordo: Carlo Lepore magnifico Gianni Schicchi, e Markus Werba un disinvolto Ramiro. Ma è soprattutto il lavoro d’insieme che funziona come un perfetto ingranaggio, premiato dal successo assai caloroso tributato ai bravi interpreti.
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