Di una mostra della quale si ha intenzione di parlare bene, come voglio far di questa Per Sogni e per Chimere. Giacomo Puccini e le arti visive, realizzata della Fondazione Ragghianti (fino al 23 settembre, a cura di Fabio Benzi, Paolo Bolpagni, Maria Flora Giubilei e Umberto Sereni), conviene dire subito quel che meno è piaciuto. Data l’eterogeneità del materiale riguardante vari aspetti del rapporto fra Puccini e le arti (dalle opere a lui ispirate a quelle da lui viste o commissionate a quelle, ancora, concepite nei circoli ch’egli frequentava) nella sala più grande, la terza, non mi pare si sia saputo del tutto evitare un certo qual senso di dispersione, assente invece nelle più piccole, come quella dedicata a Chini e alla Turandot o al rapporto con Alberto Martini, nelle quali prevalevano criteri di raccolta più omogenei. Ma forse in questa grande sala centrale si è voluta suggerire più una ricchezza di stimoli e reciproche influenze tra gli artisti e il musicista che tracciare nette genealogie.
Non in tempo per Cremona
Chiaro ed encomiabile è, ad ogni modo, l’intento di mostrare come Puccini sia stato un compositore curioso e culturalmente aggiornatissimo. Mai egli avrebbe definito, insomma, come fece Mascagni, l’arte moderna dannosa al pari dell’oppio e della cocaina. Con tali propositi, era giusto dunque partire dagli anni milanesi, durante i quali Puccini fu in contatto con gli ambienti della Scapigliatura: non fece in tempo a conoscere Tranquillo Cremona ma ne frequentò discepoli e amici quali Roberto Fontana, Eugenio Gignous e Luigi Conconi che gli fece uno dei ritratti esposti alla mostra. Fu in questi anni che Puccini compose Le Villi, un soggetto cimmerio, secondo il gusto di Tarchetti e del giovane Boito, su soggetto di Ferdinando Fontana, fratello di Roberto. Nel 1891, abbandonata Milano per la natia Toscana, Puccini si lasciò alle spalle anche le Villi, sorta di Erinni dei fedifraghi, che egli preferirà d’ora innanzi tradurre in triboli interiori.
Non si può dire che in lui l’intenditore d’arte fosse stato precoce come il musicista, giacché in quel tempo s’era legato d’ amicizia con Giovanni Muzzioli e Edoardo Gelli, pittori mediocri che dipingevano al modo di un Vincenzo Capalbio o di un Attilio Simonetti, cioè con le briciole cadute in terra dai grossolani banchetti di Alma-Tadema e di Mariano Fortuny. Il più delle volte ritraevano ginnaste callipigie, come sarebbero piaciute nella réclame di qualche stazione termale, riprodotte, invece, sullo sfondo di templi ionici o su improbabili pelli di zebra. A Torre del Lago, dove Puccini viveva, si andavano, tuttavia, riunendo pittori di più alta statura, i quali presero a ritrovarsi col compositore fino a legarvisi profondamente. Si trattava di post-macchiaioli come Ferruccio Pagni, Francesco Fanelli e i fratelli Tommasi. C’è in mostra un piccolo florilegio delle loro opere: Il fosso e Falaschi nel padule di Fanelli, Canale di Torre del Lago e Tramonto in palude di Pagni, Pescatorelli di Ludovico Tommasi.
Fino al principio del secolo nuovo, tuttavia, l’autore della Madama Butterfly conservava un certo riserbo nei confronti dell’arte nuova. Nella quarta e quinta sala, le cose appaiono già molto mutate. È la stagione della Fanciulla del West (1910), de La Rondine (1915) e del Trittico (1918), opere nelle quali molta dell’effusività melodica pucciniana appare inaridita. C’è ancora la scorrevole cantabilità della romanza Oh mio babbino caro ma è ormai come un manufatto antico ripescato dalle fate in fondo al lago. Molti anni fa, quando il Belpaese era ancora musicalmente alfabetizzato, si potevano sentire canticchiare l’Addio fiorito asil della Butterfly, l’O Soave fanciulla della Bohème o la Donna non vidi mai della Manon (in Germania alle vecchie sale d’opera stava appiccato il cartello Mitsingen verboten!), a quanti, invece, capitava di ascoltare la musica di Suor Angelica o del Tabarro per bocca di cantanti improvvisati? L’Or son sei mesi o l’Hai ben ragione sono arie di ciclopi tormentati, scandite in declamati vigorosi su accordi difficili; le voci che le intonarono, prima Caruso (c’è un gesso di Troubetzkoy in mostra che lo rappresenta negli abiti della Fanciulla del West), poi, fra gli altri, Pertile, Martinelli e Del Monaco, debbon avere ben posseduto corde vocali spesse come gomene. Qualcosa si andava certo perdendo dell’aristocratico lirismo del belcanto in questa nuova scrittura musicale che spezzava la dolce ampiezza delle frasi melodiche; ma cosa collezionava in quel mentre Puccini?
Le decorazioni a Torre del Lago
La pittura stava, come la musica, assai mutando, Puccini dovette accorgersene tanto che, nel torno di pochi anni, la sua casa si arricchì di opere divisioniste, le quali gli avevano pur ricordato, fino al 1895, il pavimento di una colombaia; al Nomellini, anzi, col quale aveva stretto infine amicizia, commissionò, nel 1900 anno della Tosca, le decorazioni della casa di Torre del Lago, delle quali l’umidità fece poi gran rapina. Alla mostra, del Nomellini è esposto un polittico di quattro dipinti Sinfonia della luna, che è una contemplazione lirica e assorta, al modo tipico di questo pittore, di boscaglie compatte come rocche e di faraglioni emergenti da un mare che è come spugna di luce lunare. Poi nella stessa sala possono ammirarsi Il silenzio e La danza di Previati, che Puccini dovette vedere alla Biennale di Venezia del 1912, e, soprattutto, alcuni medaglioni di Duilio Cambellotti, raffiguranti fabbri e agricoltori con spalle di lacertosi Telamoni, come ne immaginerà, di lì a qualche anno, il cinema sovietico.
Nessun sodalizio, tuttavia, segnò l’opera di Puccini come quello con Galileo Chini. Si conobbero con molta probabilità intorno al 1905, per il tramite del Nomellini; qualche anno dopo il musicista ne acquistava un pannello in ceramica per la decorazione del camino della sua villa a Torre del Lago. Se la collaborazione fra i due si fosse limitata al Trittico, vi si potrebbero spendere poche righe, giacché i bozzetti per il Tabarro sono buoni, non eccelsi; ma nel ’24 Puccini incaricò l’amico di realizzare delle scenografie per Turandot e gli esiti furono ben più alti.
Cina grave, enorme e smisurata
Scorrendo questi bozzetti, si osserva una Cina di immani edifizi e muraglie, di folle oscillanti sotto cieli turchese e rosa tè; Cina grave, enorme e smisurata che doveva ben corrispondere all’immagine che ne evocò Puccini con quei suoi principi venuti «in lunghe carovane», i sovrani «dall’arco di sei cubiti» e i cortei d’ombre che dileguano al primo albicare. Qualcosa di questo Oriente era stato lo stesso Chini a suggerirlo al compositore, dopo essere tornato da un lungo viaggio in Siam dove aveva decorato il palazzo del trono di Bangkok (a Ceylon dipinse anche un quadro, visibile mostra, che gli sarebbe poi servito da base per i lavori su Turandot). Da quelle regioni aveva riportato certi strumenti che avevano fatto la gioia del compositore, in particolare «uno xilofono basso birmano, anzi siamese». In linea più generale, fu l’affinità d’intenti a unire i due artisti: entrambi, infatti, a un certo momento ricorsero a motivi orientali per innovare la propria arte; entrambi, sfuggendo l’esotismo patinato, ne fecero un uso strutturale e non meramente esornativo; a entrambi, infine, piacque trasporre questi motivi in toni di stilizzata fiaba. I musicologi sono soltiti considerare Il paese del melodramma di Bruno Barilli più un libro di belle pagine che di savie critiche, eppure nessun barbogio vorrà ridire, credo, su queste parole scritte in calce al capitolo su Puccini: «L’Arte è sempre in regola con il passato e tuttavia in perfetto orario con l’avvenire. All’alba del dì, spinta oltre dal suo alacre travaglio di esplorazione essa è già fuori all’avanguardia». Mi pare che questo possa dirsi anche dell’arte di Galileo Chini. E che il percorso espositivo allestito nella Fondazione Ragghianti lo abbia dimostrato.