Apparentemente paradossale il dittico novecentesco proposto dal Teatro San Carlo: Goyescas di Enrique Granados e Suor Angelica di Giacomo Puccini, il primo ispirato alla pittura di Goya, il secondo catafratto in una tragedia conventuale senza scampo. Opere coetanee, anche se Goyescas era nata come ‘suite’ per pianoforte già nel 1909-11 e viene trasformata in opera qualche anno dopo, mentre Suor Angelica è stata composta da Puccini nel 1917.

Nell’opera di Granados la successione delle scene segue i brani della suite lungo lo svolgersi di una vicenda di prevedibile, tragica inesorabilità, riscattata da una musica sempre appropriata e turbinosa, che aderisce come una pelle ai caratteri, stereotipati sì ma sempre coinvolgenti, dei protagonisti. In sintesi si tratta dello scontro tra Fernando, un aristocratico geloso della sua altrettanto aristocratica amante che sfida a duello un majo, Paquiro, in nome del suo onore di maschio, duello nel quale Fernando viene ferito a morte e spira tra le braccia della sua amante, Rosario.

La vischiosità sentimentale della storia è rivestita di una musica così ammaliante che Consuelo Velázquez, autrice di Besame mucho, dichiarò di aver composto il brano ispirandosi all’accordo che apre l’aria dell’usignolo, cantata da Rosario mentre aspetta il suo amato.
In tutt’altro mondo è ambientata la pucciniana Suor Angelica, la cui protagonista sconta nella clausura una pena imperdonabile: aver avuto un figlio fuori dal matrimonio – figlio che non ha più visto dalla nascita – infangando così lo stemma del casato, una macchia che impone la rinuncia all’eredità, richiesta che le viene avanzata dall’implacabile ‘zia principessa’ (progenitrice degli innumerevoli sostenitori dell’oggettiva necessità di rinunciare alle lotte, ai diritti, a una vita compiuta) che solo costretta dalla nipote le rivela infine che il bambino è morto due anni prima; rimasta sola, disperata, Suor Angelica si uccide.

La desolante nequizia di una vicenda così agghiacciante è in parte riscattata dal suo esser pensata come parte centrale del Trittico, dopo il cupo Tabarro e prima del malizioso e spavaldo Gianni Schicchi. L’opera è una parentesi casta e opalescente in cui la musica avanza insinuante e senza scosse apparenti fino alla fine, quando il dolore della protagonista viene amplificato dall’orchestra con una vera e propria esplosione.

Dalla giustapposizione dei due atti unici scaturisce uno spettacolo magnifico, grazie alla regia, di Andrea De Rosa, agli e alle interpreti, citiamo almeno la sensuale Rosario di Giuseppina Punti e la straziata Suor Angelica di Marià José Siri, e soprattutto grazie alla conduzione di Donato Renzetti – perfettamente a suo agio sia nella mutevolissima ritmica di Granados che nell’ascetica, sospesa tragedia pucciniana – il cui senso istintivo della teatralità e la sagacia nell’individuare il giusto ‘tono’ per ciascun autore è stato trionfalmente riconosciuto dal pubblico. Oggi ultima replica.