Sono un lavoratore del pubblico impiego di 53 anni, uno dei tanti, in servizio presso Roma Capitale ormai dal lontano 1987. Un funzionario sempre impegnato – sin dall’età di 26 anni, alla prima esperienza dopo gli studi universitari – a combattere modelli tradizionali della P.A. in termini di lavoro e di organizzazione, i quali, come sappiamo, hanno segnato negativamente la categoria, con giudizi non edificanti da parte dell’opinione pubblica.

Ho sempre odiato la “burocrazia” vista come attività amministrativa pesante, farraginosa, rivolta sulla difensiva e mai in prospettiva verso nuove e moderne forme di azione, anche coraggiose; ho sempre non sopportato l’agire arroccato in funzione di una tutela interna piuttosto che dei benefici e del benessere dei cittadini.

Quindi condivido il rinnovamento della P.A. (direi un ammodernamento con un occhio all’Europa), che il nostro Governo sta mettendo in piedi. Un progetto atteso da numerosi anni, con funzionari e dirigenti aggiornati non solo in termini di leggi e regolamenti – lavoro fondamentale ma spesso, purtroppo, sottovalutato – ma anche nei comportamenti, nelle modalità organizzative e manageriali, nello spirito innovativo di funzioni che “servono” in primo luogo ai cittadini/utenti e alle loro esigenze. Perché è ora che le cose cambino davvero.

Ma le cose, sia chiaro, devono cambiare nel senso giusto, anche con azioni impopolari, guardando sempre alla “mission” dell’efficienza ed economicità dei servizi, della modernità delle organizzazioni pubbliche, della valorizzazione delle risorse migliori, del giusto riconoscimento professionale del personale più meritevole, della pari dignità nelle PP.AA., della fine dei privilegi e dell’indifferenza (o peggio della difesa) verso gli indifendibili. E su quest’ultima cosa mi duole dire che un pezzo di responsabilità le hanno avute anche le organizzazioni sindacali, che ho sempre difeso e che continuerò a ritenere fondamentali per la tutela di noi lavoratori.

Credo però che il Governo, in questo percorso di riforma, debba, una volta per tutte, fare chiarezza:

  • con la rabbia della gente contro il (prezioso) lavoro dentro tutte le PP.AA., che definirei una articolata quanto geograficamente diffusa Organizzazione Amministrativa e di Servizi nella quale esistono moltissime risorse responsabili, preparate e produttive, vogliose di dare il giusto contributo per il Paese, molti dei quali anche sottopagati;
  • con la rabbia del personale delle PP.AA. che, pur avendo le carte in regola per crescere professionalmente e dare benefici ai servizi, si vede quotidianamente calpestato dall’opinione pubblica e spesso non aiutato nel “suo interno”;
  • con la rabbia di entrambi per l’inconsistenza degli strumenti attualmente disponibili contro comportamenti inammissibili di inefficienza, scarso rendimento o, peggio ancora, di supponenza di chi sente comunque garantito anche quando agisce nell’illegalità.

Una riforma della P.A. va fatta, senza esitazione, anche guardando queste cose; una riforma anche andando a “lavorare”:

  • sulle diseguaglianze economiche che appaiono sempre più marcate, a fronte di lavori spesso di pari entità, qualità e dignità;
  • sulle aspettative professionali, senza tenere fermi alla finestra per numerosi anni lavoratori meritevoli;
  • sugli interventi per incentivare iniziative ed idee da poter utilizzare per il bene dell’Amministrazione;
  • sulle azioni da adottare per scoraggiare comportamenti non più accettabili.

Tanti sono nelle PP.AA. i lavoratori responsabili, disponibili, aggiornati, preparati, meticolosi, particolarmente attenti alle istanze dei cittadini.

Ma non si può non sottolineare che questi lavoratori non tollerano più: da una parte le diseguaglianze ormai troppo evidenti e che ogni giorni appaiono anche sugli organi di stampa, tra dipendenti di serie “A” e dipendenti di serie “C”, sebbene svolgano spesso analoghe funzioni e abbiano medesime responsabilità; dall’altra l’impossibilità di ricevere – fatte alcune eccezioni – riconoscimenti professionali per le capacità ed il buon lavoro, rispetto a chi non agisce con queste caratteristiche e queste modalità.

Perché non si riesce a dare di più, non solo in termini economici, a chi lavora di più e soprattutto meglio? Una formula così semplice ma che dentro il “pubblico” sembra un’utopia.

Sono dell’idea che sia ora di finirla con questa campagna denigratoria, ingiusta, generica e demagogica nei confronti dei lavoratori pubblici, contro i quali, nella migliore delle ipotesi, si usa l’epiteto “fannulloni”. Credo, nel contempo, però, che quei (pochi) veri fannulloni la debbano fare finita.

Ma per questo serve anche uno scatto di reni del Governo e degli Amministratori di questo Paese, altrimenti le parole non si traducono in fatti e tutto rimane immutato.

nsomma serve una vera e propria “rivoluzione copernicana” all’interno della cd. macchina pubblica. Ed in questo rinnovamento reale e concreto devono stare dentro, appunto, anche i temi della diversità di trattamento economico e di carriera tra i lavoratori della P.A., evitando, ad esempio, che i lavoratori di alcune Amministrazioni continuino ad essere “figli di un dio minore” rispetto ad altri.

Aggiungo che gli scandali degli ultimi tempi che hanno toccato la politica e in generale il Paese in tutte le sue realtà sociali, compresa quella dei lavoratori pubblici mi fanno, ci fanno stare ancora più male a noi che lavoriamo con onesta, con professionalità, con rigore. Un Paese ormai strutturato su ingiustizie sociali troppo grandi, dove i privilegi e le raccomandazioni sono all’ordine del giorno, ove furberie ed abusi di ogni genere sembrano ormai modalità comportamentali “normali”.

In tutto questo c’è, dunque, bisogno di una vera e propria “cura antibiotica”, violenta e consistente, del nostro amato Paese (P.A. compresa), tesa a determinare una inversione di tendenza, dove si dà aiuto a chi ha davvero bisogno, si valorizza chi davvero lo merita, si sostiene chi produce ricchezza e lavoro nell’onesta e nella legalità, si dà spazio a idee nuove e principi sani. Senza guardare sempre l’esempio di altre nazioni ma diventando noi l’esempio per gli altri.

Io ci credo. Io ci voglio credere.