La vicenda dei vigili urbani romani, e di altri pezzi di amministrazione pubblica (autisti dei bus a Bari, netturbini a Napoli) che hanno adottato strategie «creative» per schivare il lavoro la notte di Capodanno, amplificata da tutti i media e dai politici, da Renzi in giù, rilancia alla grande la vecchia tesi: perché le cose funzionino bisogna affidarsi al privato, e abbandonare il pubblico. Lo ha detto con particolare foga – ieri sul «Corriere della Sera» – il sindaco di Bari Antonio Decaro, esponente del Pd. O gli autisti si mettono in riga o se no «il prossimo Capodanno dovranno risponderne al loro padrone». Il sindaco ricorda i recenti sforzi economici del Comune per salvare dal fallimento la locale azienda del trasporto pubblico. Un’attività che per lui dovrebbe rimanere pubblica. Ma non a queste condizioni: «O si cambia o si vende».
L’idea è che alla fine solo un padrone sempre più libero di licenziare possa essere in grado di garantire l’efficienza. Che il settore pubblico molto, troppo spesso, funzioni male, anche per comportamenti poco responsabili dei lavoratori, purtroppo è vero. E non si tratta solo degli impiegati, dei vigili e degli autisti: basta guardare all’incredibile vicenda di leggi fondamentali come quelle fiscali che rivelano equivoci scandalosi, scritti «a loro insaputa» da ministri e tecnici supposti esperti.
Disgraziatamente anche il settore privato non è esente da colpe gravissime. Si veda il caso Ilva – una delle acciaierie più importanti del mondo – ceduta molti anni fa dallo Stato a un privato in nome dell’efficienza, e oggi sull’orlo di una catastrofe che, forse, solo un nuovo intervento pubblico potrà scongiurare. Per non menzionare il fatto che viviamo ancora gli effetti di una crisi senza precedenti indotta soprattutto dalle scelte di un ristretto numero di operatori finanziari privati.
Sospetto dunque che la soluzione del problema che molte cose funzionano poco e male non riguardi tanto il tipo di proprietà che le regola. Non mi fido di chi dice: privatizziamo tutto, scommettendo sul fatto che il comando del padrone e la regola del profitto garantiranno il risultato, compreso quello nient’affatto semplice di realizzare per tutti i cittadini il diritto di muoversi a prezzi accessibili. Magari regolando anche decentemente il traffico. D’altra parte noi di sinistra dovremmo sapere che la famosa socializzazione dei mezzi di produzione, agita attraverso la proprietà statale, è stata un completo fallimento.
Direi quindi che sarebbe l’ora di finirla con la contrapposizione tra pubblico e privato. Ogni tipo di prodotto e di servizio, in realtà, rappresenta più una funzione pubblica che un interesse privato. Riguarda la qualità della vita pubblica (cioè dei cittadini) che tipo di automobili produco e come e a chi le vendo, così come costruire e guidare autobus. Oppure fondere acciaio, confezionare caramelle.
E chi lavora, sia in un Comune, sia in una fabbrica di cioccolato (un altro fondamentale bene comune), dovrebbe avere gli stessi diritti e gli stessi doveri, prima di tutto verso se stesso, verso il senso di ciò che produce e dei servizi che fornisce, e verso gli utenti, consumatori ecc. Così come un imprenditore un manager, un sindaco o un dirigente statale dovrebbero essere considerati – e grosso modo proporzionalmente remunerati – a seconda delle loro responsabilità, capacità e inventiva, pur nella differenza di chi esercita un ruolo politico, eletto dai cittadini, e chi no.
Tutto allora è pubblico, ma non in quanto statale. Un’ idea imprecisa, utopica? La suggerisco come esperimento mentale.

(La rubrica di Alberto Leiss di martedì scorso è slittata a oggi per motivi di spazio. Ce ne scusiamo con l’autore e con i lettori.)