C’è stato un tempo, non troppo lontano, in cui al cinema d’autore era rivolto «un culto esigente e minuzioso». Un tempo in cui si poteva facilmente transitare dalla realtà ordinaria a un altrove extramondano solo varcando la soglia di quel tempio laico che era la sala di un cineclub. «E cos’altro vediamo al cinema, cos’altro ci mostra un film, fosse anche il più stupido e insignificante dei film, se non l’aldilà?». Sono parole di Emanuele Trevi, che nel suo ultimo libro Sogni e favole ha raccontato il crepuscolo di quel culto con la nostalgia di chi ora vede la terra più desolata dopo l’abbandono dell’ennesimo dio. L’accostamento tra cinema e culto, esplorato da Trevi nei territori più malinconici ed elitari delle sale d’essai, ha anche la sua versione secolarizzata e pop nel termine cult, che sta a indicare – com’è arcinoto – la venerazione al limite del feticismo per ciò che non è mainstream, ma anche per l’eccentrico, lo sproporzionato o addirittura il volgare. Lo testimoniano i numerosi «culti» che tracciano sentieri nella storia del cinema all’inseguimento di maschere, volti e oggetti in pellicole spesso oscure di serie che vanno dalla B alla Z.
Ci sarebbe da chiedersi se la natura di questo accostamento, o addirittura di una effettiva parentela, tra cinema e culto non risieda in quelle caratteristiche che Aristotele nel De philosophia individuava come proprie dell’esperienza dei Misteri. Che cosa fa infatti il cinema, al pari dei Misteri, se non veicolare una conoscenza attraverso il pathéin («provare un’emozione») anziché attraverso il mathéin («imparare»)? Una definizione, questa, che senza dubbio avrebbe fatto gongolare Hitchcock, cineasta disinteressato quanto pochi altri a trasmettere messaggi con le sue pellicole, ma scrupoloso nel voler «utilizzare l’arte cinematografica per creare una emozione di massa», come dichiarò nella celebre intervista rilasciata a François Truffaut.
Ed è proprio nel solco di un approfondimento dell’intima connessione tra cinema e culto che si può collocare il libro di Guido Vitiello Una visita al Bates Motel (Adelphi «Imago», pp. 251, € 38,00). Un approfondimento che prende la forma di un viaggio per stazioni all’interno dell’albergo e della dimora di Norman Bates (Anthony Perkins), ossia il tempio eretto da Hitchcock per officiare la transustanziazione degli strumenti cinematografici in «film puro», come appunto il maestro inglese considerava il suo Psycho. Ammetteva infatti il regista, sempre nell’intervista a Truffaut: «In Psycho del soggetto mi importa poco, dei personaggi anche; quello che mi importa è che il montaggio dei pezzi del film, la fotografia, la colonna sonora e tutto ciò che è puramente tecnico possano far urlare il pubblico». Curiosa svista quella di Hitchcock, che nell’elenco di strumenti a sua disposizione per suscitare il terrore degli spettatori non nomina la scenografia, o la rubrica distrattamente alla voce di «tutto ciò che è puramente tecnico». Perché è proprio dall’attenzione minuziosa agli ambienti che muove l’indagine di Vitiello mettendo in evidenza come – al pari e forse più di altri aspetti per cui il film è universalmente noto (il montaggio, la musica di Bernard Herrmann ecc.) – la scenografia giochi un ruolo determinante nella creazione di quell’emozione pura. Vitiello, docente di Teoria del cinema a Roma «La Sapienza» e collaboratore di quotidiani e riviste, fa bene a ricordare quello che Hitchcock dichiarava in un articolo del 1937 sul proprio modo di intendere la regia: «Prima di girare film ho studiato arte. A volte penso per prima cosa agli ambienti».
Alla luce di ciò, non stupisce la cura nell’allestimento del «tempio» di Norman Bates, e soprattutto il fatto che per raggiungere il suo risultato emotivo Hitchcock abbia chiamato a raccolta immagini e simboli che parlano all’inconscio (forse ancora più che all’occhio) degli spettatori dalle profondità del tempo e della cultura. Sembra quasi che il regista abbia raccolto il testimone di quegli artisti rinascimentali pronti «a rifarsi alle opere d’arte dell’antichità non appena si trattasse di cogliere in ciò che vive l’istante di un moto esterno», per usare le parole di Warburg. E così la banale storia di un serial killer schizofrenico nell’Arizona degli anni Cinquanta si trasforma in una rappresentazione sacra in cui si incontrano cicli mitologici (Amore e Psiche, Diana e Atteone, Orfeo ed Euridice ecc.), storie bibliche (Susanna e i vecchioni) e «misteri d’amore» (la fin’amor dei provenzali). «Norman è morto» verrebbe da dire giocando con le Note per una finzione suprema di Wallace Stevens «ma Norman era / un nome per qualcosa d’indicibile».
Con suspence non inferiore a quella del testo filmico del capolavoro hitchcockiano ci lasciamo guidare così dall’occhio erudito di Vitiello all’inseguimento dei rimandi e ammiccamenti che il maestro ci lancia nel suo allestimento. Una selva di chincaglierie da media borghesia americana che, sotto l’apparenza di «buone cose di pessimo gusto», lasciano spalancare un abisso d’orrore e intrecciano un contrappunto simbolico in cui la verità su Norman Bates raggiunge una cristallina e inquietante evidenza. Così ad esempio, nella scena dell’omicidio del detective Arbogast (Martin Balsam), un’innocua statua di Cupido fa eco alla vendetta di un altro «arciere» in difesa della sua Venere (impagliata). O ancora, i motivi floreali e le spighe che ornano un vaso nella stanza da letto della signora Bates – simboli muti agli occhi della sorella di Marion (Vera Miles) che vi s’intrufola – rimandano al rito di morte e rinascita che lì si è consumato. E, andando a ritroso, il dipinto che nasconde il foro attraverso cui Norman spia Marion (Janet Leigh) rappresenta l’episodio biblico, già citato sopra, di Susanna e i vecchioni, una vicenda in cui la concupiscenza dei due giudici lussuriosi verso la fanciulla innocente preconizza l’omicidio di Marion («un omicidio che è come uno stupro» precisa Truffaut) e affratella perversamente lo spettatore al voyeur Norman. Ma il lettore potrà trovare, insieme a questi, innumerevoli altri motivi che lo faranno smarrire felicemente in quel bosco di corrispondenze che è il Bates Motel.
Tra le molte trasformazioni alchemiche cui Hitchcock usualmente presiedeva, almeno un’altra è però da ricordare: quella della donna in Diva, un processo che negli anni d’oro di Hollywood era per le attrici – secondo le parole di Vitiello – «ascetico e crudele, degno di un racconto di Wedekind».
Un’attività che affratellava in qualche modo Hitchcock a Norman Bates facendo di quest’ultimo un suo doppio negativo, quasi che in Psycho Hitchcock, presentendo la fine dell’età d’oro di Hollywood, avesse voluto mettere in scena una variante infera della mutazione della donna in Diva propiziata da un figlio-adoratore squilibrato.
Al di là della bassa considerazione che Hitchcock aveva degli attori («sono bestiame» affermava, questa volta senza scherzare troppo) e in particolare delle attrici – era una Hollywood lontana anni luce dal MeToo – è innegabile che Hitchcock avesse una particolare sensibilità metafisica per il Femminino. Una sensibilità che gli ha permesso di fare di alcune delle sue attrici (Ingrid Bergman, Grace Kelly, Kim Novak, Tippi Hedren) le ultime vere «dive» di Hollywood, prima che gli scapigliati anni Settanta portassero in dote agli studios un nuovo cielo di stelle e (soprattutto) una nuova terra. A tali trasformazioni alchemiche è dedicato Le bionde di Hitchcock (Jaca Book, pp. 227, € 50,00, prefazione di Paolo Mereghetti) del giornalista tedesco Thilo Wydra. Al pari del libro di Vitiello, questo elegante volume è corredato da un ricco apparato fotografico, e insieme a Una visita al Bates Motel rappresenta un eccellente vademecum dei Misteri hitchcockiani, un culto che confidiamo destinato a perdurare anche dopo l’epoca del tramonto del cinema «come sangue che mormora e gesto che s’alza dalle profondità del tempo» (Rilke).