Un thriller psicologico anni in stile anni ottanta, con un colpo di scena finale da noir classico e una protagonista (Rooney Mara) che piacerebbe molto a Hitchcock. Per quello che potrebbe essere il suo ultimo lavoro da regista (se si eccettua Behind the Candelabra, il film su Liberace realizzato per Hbo che vedremo presto a Cannes), Steven Soderbergh rielabora temi che gli sono cari (lo squarcio di un’umanità apparentemente incapace di gestire/manifestare le sue emozioni, la malattia del capitalismo, il cinema) in un racconto venato d’ironia in curioso equilibrio tra Psycho e Woody Allen, e, ammette il regista, influenzato da Attrazione fatale («Ho guardato a lungo il film di Adrian Lyne…Sapeva esattamente cosa stava facendo. È molto ben diretto. Anche se in realtà gli anni ottanta sono stati un terribile periodo per il cinema Usa -il momento in cui le corporation hanno assunto il controllo di Hollywood»).

L’aggressivo cowboy di Wall Street Martin Taylor (Channing Tatum) esce di prigione dopo aver scontato una sentenza di quattro anni per insider trading. Tornato tra le braccia della devotissima moglie Emily (Mara), Martin è pieno energia e di ottimismo – il loro tenore di vita è decisamente modesto rispetto ai tempi d’oro della sua avventura a Wall Street, ma lui è disposto a ricominciare lentamente da capo, con al fianco la timida sposina di provincia. Emily sembra però molto depressa e un giorno tenta di uccidersi, schiantando l’auto contro il muro del garage. Niente che non possa essere curato, secondo il dottor Jonathan Banks (Jude Law, anche qui in un personaggio ambiguo, come quello di Contagion), che le prescrive un nuovo farmaco ancora in via di sperimentazione, Ablixa. Ma la medicina ha effetti inaspettati e presto si scopre che il problema di Emily ha radici più lontane nel passato. E affiora alla luce un’altra psichiatra (Catherine Zeta-Jones).

Solo velatamente legato al tema di fondo di Contagion (il ruolo dellegrandi corporation nella ricerca medica e nella nostra vita di tutti i giorni) Effetti collaterali è, per certi versi, un ritorno di Steven Soderbergh a un tipo di cinema di genere più «tradizionale», riconoscibile, dopo gli asciutti, ipercinetici, detour sprimentali di Magic Mike, Haywire e The Girlfriend Experience. Alla ricerca sul corpo, che attraversava tutti quei film, qui si sostituisce un piacere quasi fisico dell’intrigo narrativo e dei suoi meccanismi. In quel senso, forse Effetti collaterali è un film più vicino alla giocosità patinata degli Ocean. Anche se, rispetto a quella Las Vegas tutta sfarzo e colori sgargianti, Soderbergh (come sempre anche alla fotografia con lo pseudonimo Peter Andrews) dà alla sua New York una qualità sonnambula, stupefatta – drogata? – che rende i personaggi quasi evanescenti.

Come il regista newyorkese per eccellenza, Woody Allen (e a suo tempo Robert Altman), Soderbergh si è ritagliato un percorso autoriale off Hollywood ma può contare su un pool di star e attori di qualità che farebbe qualsiasi cosa in un suo film. Come Hitchcock ha un controllo sublime della forma e della suspense del racconto. Effetti collaterali è meno emozionante, sperimentale, dei suoi ultimi film. Ma è una visione piacevolissima.