Gli scienziati e gli intellettuali europei artefici dell’apertura delle porte della percezione tra gli anni Quaranta e Cinquanta, erano assai lontani, per cultura e classe sociale, dal mondo della musica popolare. Questi adulti posati e responsabili, ironicamente definiti «sciamani in tweed», nel corso dei loro avventurosi esperimenti usavano come colonna sonora le arie di Mozart. Parole come «sentire la musica vibrare attraverso il corpo trasformato in un’intera orchestra, passando dal verde all’azzurro e all’arancio» – scritte da Anaïs Nin nel corso dei test – erano similmente frutto dell’ascolto del repertorio classico.
Quando la molecola selvaggia, grazie ai soliti beat guastafeste, Allen Ginsberg in testa, si diffonde tra i giovani bohémien, non ne sconvolge le passioni musicali, a differenza di quanto accade nelle arti visive e nella letteratura, dove i mutamenti sono immediati. Sarà necessaria una lunga elaborazione, prima che gli strumentisti hip riescano a esprimere in modo compiuto gli stati modificati di coscienza, l’essere «experienced».
Nel 1959 un gruppo di surf music di Los Angeles, The Gamblers, incide un 45 giri intitolato LSD 25, ma dai solchi non trapela nulla di particolare. Nel 1962, Alan Watts, un filosofo che alle élite accademiche preferisce le frequentazioni delle comunità beatnik, incide This Is It, uno spin-off del libro che lo ha reso famoso, The Joyous Cosmology. Descritto come uno «scontro tra un gruppo di monaci in preghiera e una banda di cavernicoli urlanti», è un catalogo di effetti speciali, formule magiche recitate e suoni prodotti da strumenti esotici, «troppo tribale per essere avanguardia, troppo grezzo per essere free jazz e troppo sconvolto per essere rock’n’roll».
FEDELI AL FOLK
Nel 1964, un duo folk del Greenwich Village, appassionato di viaggi con l’Lsd – The Holy Modal Rounders – inserisce la parola «psichedelico» in una cover del tradizionale, Hesitation Blues. L’anno seguente i due vengono reclutati dai poeti newyorkesi Tuli Kupfberg e Ed Sanders, nel loro progetto The Fugs, presentato provocatoriamente come «primo complesso psichedelico della storia». L’esperienza dopata debutta in modo esplicito con The Trip del californiano Kim Fowley, un invito al viaggio in un «mondo di cani volanti e gatti d’argento e topi smeraldini e folle senza volto». Ma non ci siamo ancora: gli entronauti rimangono fedeli al folk – una fissazione condivisa da gente come i Grateful Dead o i Charlatans, che accompagnano i tumultuosi happening inzuppati di acido lisergico, promossi dallo scrittore Ken Kesey (Acid Test) in California e dal Red Dog Saloon di Virginia City in Nevada.
Finalmente alla metà degli Anni Sessanta tutti i tasselli che formeranno il puzzle stregato della musica della coscienza allargata, vengono allo scoperto. Un artista «acceso», Bob Dylan, proclama l’eresia del folk elettrificato e offre preziose indicazioni di scrittura creativa con tuffi carpiati nello stream of consciousness. L’intraprendenza concertistica di Ravi Shankar spinge alla riscoperta della musica orientale, in particolare delle sonorità stranianti del sitar, perfetta per descrivere le fasi mistiche del viaggio. Suoni che influenzano il jazzista John Coltrane, appassionato di Stravinski, studioso di testi vedici e tibetani, che nel 1965 esce con OM, 29 minuti di aggressione incondizionata ai sensi attraverso un vortice di irrequietezza dionisiaca e improvvisazione atonale alla Schönberg.
Il flusso libero e l’annullamento delle barriere offerte dal free jazz di Coltrane (accompagnato nelle sue esplorazioni da Dizzy Gillespie, Miles Davis, Roland Kirk, Thelonious Monk, quest’ultimo assiduo frequentatore delle sedute di Timothy Leary) sono la struttura portante su cui i ragazzi bianchi possono stendere le loro visioni interiori. Le indicazioni di Coltrane sono avidamente seguite dai pionieri del sound psichedelico: Jimi Hendrix, Roger McGuinn (Byrds, altro appassionato di sitar), Jerry Garcia (Grateful Dead), James Gurley (Big Brother & The Holding Company).
Ultimo tassello, la British Invasion, il Merseybeat, che suggerisce una versione meno cafona del rock’n’roll e meno etnica del blues, inscenata da Beatles, Rolling Stones, Who, Yardbirds, Animals, Small Faces ecc., con un’elegante sfacciataggine stilistica. È a loro che fa riferimento il fenomeno del garage rock, una traduzione furiosa e aggressiva delle sonorità britanniche, portata avanti sotto Lsd da gruppi in gran parte originari del Texas, come The 13th Floor Elevators, The Standells, The Seeds, ? and the Mysterians, Electric Prunes.
FRISCO
Ormai i segnali sono forti e chiari: la musica pop viene proiettata verso territori vergini, dove la lingua franca è frutto di un’ibridazione tra l’avanguardia, il jazz e i canoni della composizione sonora asiatica, già esplorati da Debussy. Non secondario è il fascino esercitato sulle menti espanse dal catalogo degli effetti speciali, sino ad allora appannaggio dei film di fantascienza, pedaliere, phaser, wah-wah, echi, Mellotron, fuzz box, registrazioni sovrapposte, nastri ritardati, stereo.
Negli Usa il terremoto percettivo ha il suo polo di irradiazione primario a San Francisco, che strappa a Londra lo scettro di capitale della musica pop. La città diventa un laboratorio sociale, un’enclave controculturale, officia la nascita della comunità hippie, e produce una serie di band plananti con un forte imprinting mistico tribale, Quicksilver Messenger Service, Jefferson Airplane, Moby Grape, Big Brother & The Holding Company, Grateful Dead.
Da Los Angeles si elevano i cori celestiali dei Byrds, le ballate dei Buffalo Springfield, e le buone vibrazioni dei Beach Boys, gli sberleffi avanguardisti dei Mothers of Invention (anche se Zappa si offenderebbe a essere incluso in questa lista) e il citazionismo decadente weimeriano dei Doors.
BRITISH INVASION
Il mondo black reagisce splendidamente con Otis Redding, Sly and The Family Stone, Love e Funkadelic, tra soul cosmico e dandismo funky. Nel 1967 la palla passa agli inglesi che mettono ordine alle volenterose improvvisazioni della Summer of Love. I gruppi che avevano steso i colleghi americani con il loro sound vengono evangelizzati in massa dal verbo psichedelico. I Beatles, innanzitutto, che regalano al pianeta perle di psichedelia, a partire da Tomorrow Never Knows sino a A Day in the Life. I Rolling Stones mettono temporaneamente da parte la loro aggressività sbruffona, indossano kaftani colorati e partono per viaggi cosmici «2000 light years from home». Gli Small Faces e i Kinks da mod spiritati diventano credibili esegeti della gloria delle passeggiate al parco in acido. Prendono il volo i Pink Floyd con il cappellaio matto Syd Barrett e la Incredible String Band (la loro A Very Cellular Song è una delle più accurate descrizioni del viaggio chimico) che pescano a piene mani nell’immaginario vittoriano e preraffaellita.
I Tomorrow pedalano una speziatissima White Bicycle, con un ritmo adatto a dei dervisci ruotanti. Creation e Fleurs de Lys lavorano sulle distorsioni, creando il corrispettivo inglese del garage Usa, il freakbeat. Tra le due sponde dell’oceano esiste un’importante differenza: mentre in Inghilterra la psiche scoperchiata propone un giro di giostra in un’aristocratica innocenza infantile, negli Stati Uniti si perde nel mito del buon selvaggio, nel delirio religioso, correndo a folle velocità sulle montagne russe, dove il bad trip è dietro l’angolo.