In una mostra al MAK di Vienna, chiusa per l’emergenza sanitaria (programmata fino al 17 maggio: riaprirà?), è tornato alla luce Otto Prutscher. L’occasione mi obbliga a qualche ricordo personale. Nei primi anni novanta mi imbattei per puro caso nell’archivio del nostro Allgestalter (designer universale). Era conservato dalle figlie Ilse e Helly, che dopo differenti percorsi di vita si erano ritrovate entrambe a vivere sul Lago di Como, custodi, in particolare la prima, di disegni, libri, mobili, vasi e ceramiche di Otto e dei suoi amici, da Klimt a Michael Powolny.
L’archivio non era del tutto sconosciuto, ma non c’era più stata una monografia su Prutscher da quella di Max Eisler nel lontano 1925, nonostante il suo nome affiorasse in ogni studio sulle arti della Finis Austriae e un suo ritratto, all’interno della Vienna di Hoffmann (1981) si dovesse a Giovanni Fanelli ed Ezio Godoli .
Quando parlai della questione con Marco Pozzetto, lo storico più esperto dell’arte mitteleuropea, egli si divertì a scrivere sulle pagine di «Metamorfosi», all’interno di un numero monografico organizzato intorno a Prutscher (1994), che «ancora una volta la rivalutazione dell’opera di un artista viennese problematico parte dall’Italia». Era sottinteso il riferimento ai suoi studi pionieristici sulla Scuola di Wagner e su Jože Plechnik, ma come onestamente richiama lo stesso curatore della mostra viennese, Rainald Franz, così era stato anche, nel 1956, per il caso di Josef Hoffmann studiato Giulia Veronesi. In quel momento fu poi semplice, per Pozzzetto, avere accanto Rossana Bossaglia, autrice con lui della mostra veneziana Le arti a Vienna (1984).
Senza quel numero di «Metamorfosi», nel quale confluirono altri contribuiti, non sarebbe forse accaduto che, con una relativa celerità, Vienna stessa realizzasse nel 1997 la mostra Otto Prutscher 1880-1949, Architektur, Interieur, Design, nelle sale della Hochschule für angewandte Kunst. Che cosa abbia aggiunto dopo oltre vent’anni la nuova esposizione alla precedente, che consisteva per lo più dei materiali dell’archivio comasco, è molto evidente, e sta innanzitutto nel generoso regalo al MAK di oltre un centinaio di disegni, oggetti e mobili di Prutscher da parte dei collezionisti Hermi e Fritz Schedlmayer, che li conservavano nella loro Villa Rothberger, progettata dallo stesso Prutscher. A questa donazione si somma la monografia scritta dalla coppia autriaca e così accurata nella grafica (Birkhauser Architecture, due tomi, pp. 375 + 295, euro 59,95), che rende quasi superfluo il catalogo della mostra (MAK-Arnoldsche, pp.159, euro 29,00).
Pezzo forte del lascito è la vetrina della «Stanza per un Appassionato d’Arte» creata da Prutscher per l’esibizione alla Kunstschau viennese nel 1908. Chissà se nella sua prossima sistemazione sarà mai possibile ricostruire tutta intera la Stanza che la includeva, come si vede nelle fotografie dell’epoca. Per ora non c’è che da ammirare al suo interno un repertorio di vetri raffinatissimi ed eterogenei per forme e tecniche di esecuzione, e convenire con Hermi Schedlmayer che Prutscher, «insieme a Hoffmann, Moser e Peche, forma il quadrifoglio dorato dell’Art Nouveau viennese». Per esserne ancora più persuasi basta guardare la porta dorata del camino per l’appartamento Nowak, con due figurine centrali tra motivi fitomorfici che sembrano uscite dalle pagine di «Ver Sacrum», oppure il vaso per piante su basamento della manifattura John Loetz Witwe, quasi un’architettura in miniatura che non avrebbe stonato tra quelle di Olbrich e Beherens a Darmstadt.
Si potrebbe continuare elencando la fioriera in ceramica per Wienerberger e il servizio da caffè per Klinkosch e le numerose sedute per Thonet, oltre alla quantità di tessuti per cuscini e per la tavola, e alle carte da parati dalle geometrie e colori raffinatissimi: tutti oggetti eseguiti tra gli anni dieci e venti. Una simile varietà di oggetti presuppone un’invidiabile conoscenza dei materiali e delle sue tecniche di lavorazione.
Prutscher inizia a soli quattordici anni ad apprendere le tecniche del legno presso la falegnameria del padre Johann, esperienza poi affinata in una scuola di specializzazione di carpenteria industriale. Nel 1901, dopo cinque anni alla Kunstgewerbeschule, diviene «maestro ebanista» (tra i suoi insegnanti Hoffmann e il pittore Franz Matsch) e, avendo seguito nei periodi estivi i cantieri della capitale asburgica, anche «maestro muratore». Una fulminante carriera lo attende.
Nel 1902 è premiato alla I Esposizione Internazionale di Arte Decorativa Moderna di Torino, nel 1909 Eduard Leisching, direttore dell’Österreichische Museum, lo sceglie come suo consulente, e nello stesso anno diventa professore alla Kunstgewerbeschule. Partecipa allestendo sale, salette, boudoir di una eleganza estrema in mostre internazionali di arte decorative, oltre che a Vienna, un po’ ovunque in Europa. Poté a buon diritto scrivere sulla carta intestata: «architetto di decorazione d’interni e dell’intero campo dell’arte decorativa». In circa venticinque anni, interrotti solo nel 1915-’16 dal servizio militare, è tra i più prolifici e apprezzati architetti-designer, con Carl Witzmann ed Emanuel Josef Margold, della prima generazione della Hoffmannschule.
Intorno agli anni cieci abbandonerà il geometrismo del suo maestro per linee curve, bombate, neorococò. Ciò è riconoscibile in mostra dall’accostamento tra la candida cassettiera con gli sportelli dalle superfici scanalate (1912) e la poltrona Thonet con braccioli (1919). Tuttavia Prutscher rimane sempre «saldamente ancorato all’arte degli ebanisti del passato» (Pozzetto). L’Heitmatkunst, l’arte del suolo e della tradizione, è per lui un riferimento costante quanto lo fu per Loos o Tessenow.
Questo passaggio di stile si rileva anche nelle architetture, che attendono ancora il confronto con quelle di suo fratello Hans (1873-’59). Le ville costruite nei primi anni dieci in Slesia (Villa Flemmich a Jägerndorf) e a Baden (Villa Rothberger, Villa Bienenfeld) dichiarano la loro adesione a un classicismo depurato da ogni eccesso ornamentale, secondo una concezione della forma che, come scrisse van de Velde, doveva essere «adeguata, pura ed eterna».
Alla pari dei suoi intérieur, anche l’architettura punta ad affermare valori sovrastorici. Come nel Dianabad (1913-’17), i bagni pubblici incautamente demoliti nel 1967, nei quali Prutscher compie il suo capolavoro rivestendo ogni ambiente con splendidi mosaici impreziositi dalle sculture di Powolny e Georg Leisen. Il Dianabad è l’ultima eccelsa prova di matrice hoffmanniana-moseriana, quella per intenderci che vide Prutscher protagonista nei laboratori della Wiener Werkstätte.
Nel decennio 1925-’35 aderirà a soluzioni elementari nei volumi (Casa Wertheim e Casa Czerny a Mariazell, 1932; progetto di Villa Gourary, 1934), vicini a Oskar Strnad o Josef Frank, ma non standardizzati modello Bauhaus. Esemplari saranno, 1919-’34, i suoi quattro Höf per l’edilizia sociale della Rotes Wien: Heinehof, Lorenshof, Hermann-Fischer-Hof, Eiflerhof. Rispondono anch’essi ai criteri di «utilità e semplicità» per i bisogni delle classi lavoratrici; ma quanto prima Prutscher seppe soddisfare quelli borghesi di armonia e bellezza, togliendo l’artigianato «dalle catene di una lamentevole imitazione storicista».
Con l’ingresso dei nazisti a Vienna, Prutscher perde ogni diritto, avendo sposato Helene Süssmandl, di religione ebraica. Lavorerà in segreto senza perdere la capacità di «vedere con occhi nuovi» la realtà, essendo «uomo delle possibilità» (Möglichkeitsmensch), il solo che per Musil è garante della «genialità» nell’atto creativo, e capace di riconciliarsi con lo «Spirito del tempo».