Nessuna continuità tra liberalismo classico e neoliberalismo: Dardot e Laval l’avevano af­fermato a più riprese nell’edizione francese de La nuova ragione del mondo (2009). Ritengono necessario ribadirlo ora, nell’introdurre l’edizione italiana, aggiungendo un corollario d’indubbia rilevanza. Non solo il neoliberalismo non è morto, ma è anche uscito rafforzato dalla crisi, che nel frattempo si è decisamente incancrenita. E si tratta di un incancrenirsi in cui gli stati hanno operato atti­vamente, tramite le ben note politiche di austerità. Questo perché il neoliberalismo non è af­fatto riducibile a un “fanatico atto di fede nella naturalità del mercato”; “non è semplice distru­zione regolativa, istituzionale, giuridica, è almeno altrettanto produzione di un certo tipo di re­lazioni sociali, di forme di vita, di soggettività”. Rispetto a ciò, il libro in­tende porsi come “un’opera di chiarificazione politica della logica normativa e globale del neo­liberalismo”. Chiarificazione per la quale risulta più che pertinente riflettere – come gli autori fanno nei primi due capitoli – sulle tradizioni di pensiero economico di norma considerate es­sere una sorta di estetica tra­scendentale del pensiero liberale.

L’approccio di Dardot e Laval è dichiaratamente foucaultiano, a partire dalla distinzione tra lin­guaggio dei diritti e linguaggio dell’utilità: tra diritti naturali e interessi. Il liberalismo clas­sico risulterebbe essere perciò caratterizzato dal coesistere di un approccio giuridico e di un ra­dicalismo utilitari­stico ante litteram. Una tale bidimensionalità non esclude in effetti la “con­nessione incessante” tra i due: il riproporsi della differenza tra un linguaggio dei diritti e un linguaggio dell’utilità di cui parla lo stesso Foucault. Ed è da rinvenirsi qui la ragione per la quale l’economia politica non esaurisce il campo discorsivo del liberalismo classico; e tuttavia, il suo porsi come “principio positivo dell’arte di governare” rimodella interamente, sulla base di un’idea di progresso, il rapporto tra individuo, società civile, storia.

A ragione gli autori osservano che ciò che si definisce liberalismo classico è attraversato sin dalle origini da tensioni molteplici: ad esempio, in Adam Smith, tra principio morale (in cui la simpatia non è una virtù, ma un criterio di approvazione) e movente economico dell’interesse. Ma essi non mancano di notare anche come una tale tensione non sia affatto una contraddizione. La Theory of Moral Sentiments (1759) e la We­alth of Nations (1776) “sono due corni di un vasto sistema morale: hanno senz’altro contenuti diversi ma impiegano un metodo affine”. Sia che si tratti dell’immedesimazione simpatetica o della circolazione delle ricchezze, il loro fondamento rimane il legame sociale inscritto nel cuore della natura umana. Ed è per questo stesso legame che la tensione tra socialità e interesse è in Smith interamente positiva e propositiva, quantunque costantemente vigilata dalla giustizia: virtù “negativa” il cui compito è quello di sanzionare (e dunque di negare) gli esiti estremi delle passioni asociali, che non coin­cidono affatto con quelle egoistiche, per le quali una virtù, seppur inferiore, ha luogo.

In breve, il limite del potere sovrano risiede nell’intreccio degli interessi e quindi nella ca­pacità di ognuno di sostenere, con mezzi adeguati, i propri. Si potrebbe ricordare al riguardo quale fosse la critica sferzante mossa da Smith (sulla scia di Hume) alla teoria del contratto, a cui egli contrapponeva, non a caso, una teoria dell’obbedienza forgiata interamente su di una concezione stadiale dello sviluppo delle società umane. Il concetto di società civile – intera­mente ripensato da Foucault – svolge qui un ruolo chiave nell’intendere il progresso come un ordine al cui interno “il gioco degli interessi è posto come principio di perfezionamento delle società”.

Il punto è – di nuovo Foucault – che non è più pensabile una soggezione necessaria della società civile a quella politica. Non perché si dia separatezza, bensì in quanto è cambiato il po­sto del sovrano, che in Smith (ma anche in Steuart) non è affatto inattivo. Se l’economia poli­tica è “scienza del legislatore”, quest’ultimo deve provvedere non solo alla difesa e alla giusti­zia, ma anche agli ordinamenti di polizia e, dunque, ai requisiti indispensabili di governamen­talità: si tratti di istruzione elementare o di pubblica salubrità.

Il paradigma smithiano – scozzese, meglio – non esaurisce certo l’articolazione del “di­scorso” aurorale dell’economia politica. Dardot e Laval richiamano perciò con molta chiarezza quali siano le diversità che distinguono il primo dalla scuola fisiocratica, per concludere af­fer­mando che entrambi “sono comunque animati da un’intenzione politica”. La “scienza nuova” di Quesnay e la “scienza del legislatore” di Smith evocherebbero però non solo la diffe­renza che esiste tra “sovrano” e “legislatore”, ma anche il ruolo demandato alla conoscenza (dell’“ordine naturale” o del “corso naturale delle cose”) nello stabilirsi di tale differenza. Va qui sottolineato, certamente, come la conoscenza sia relativa ai modi di esercizio del governo, non­ché all’organizzarsi del “discorso”. Quanto a Smith, ad esempio, gli autori osservano come “la scienza del legislatore trov[i] il proprio fondamento nella scienza dell’economia politica, cui deve la comprensione del ‘corso naturale delle cose’”.

Dardot e Laval, si è sopra detto, non cercano di individuare, coi più, una semplice conti­nuità tra liberalismo, liberismo e neoliberalismo, bensì di sottolineare la novità peculiare di quest’ultimo, in particolare per quanto concerne i limiti del governo e i caratteri del mercato – ove la non continuità consiste nell’attribuire al neoliberalismo una specifica razionalità fondata sul dispiegarsi della logica del mercato come logica normativa. Ci sarebbe però da chiedersi quali siano i confini a ritroso del liberalismo; perché, accademia a parte, si potrebbe obiettare che c’è un vizio d’origine storiograficamente importante, seppur nobilissimo, nell’interpreta­zione di uno Smith “li­berale”.