Con una sapiente tessitura si intreccia il vissuto di una coppia, rievocando il passato ora dell’uno ora dell’altro senza far ricorso al flashback ma rendendo presente il passato, anzi più evidente dello stesso presente, perché in grado di infliggere sofferenze e offuscare nascenti emozioni. Lui (Luca Marinelli) è oppresso da una infanzia deprimente sempre al limite della depressione, lei (Linda Caridi) ha il perenne sorriso sulle labbra tipico di chi nasconde varie nevrosi. Si incontrano e si innamorano. Alla festa è certo il bel tenebroso a colpire al cuore, lo descriveva una volta per tutte come una delle più antiche e collaudate tecniche di abbordaggio Marilyn in A qualcuno piace caldo («poi in disparte c’è uno silenzioso…») e i due opposti si attraggono si mescolano e si cambiano i connotati.

IL FILM è anomalo nel nostro panorama cinematografico, tutto basato com’è sui dialoghi, le maschere e le trame lineari, poco impegnato sul resto, a cominciare dalle sfumature. Il film di Mieli si potrebbe definire «prove di sentimento» in un cinema che si nutre solo di commedia.  Qui si allude un po’ umoristicamente anche a certi riferimenti agli antipodi, da Friends a Bergman, dai filmini di famiglia alle foto ricordo del liceo, dai classici latini a Goethe (fermati attimo, du bist so schön). Riferimenti non casuali dato che lui è un latinista, professore di Storia romana, lei un fisico e i riferimenti sono un intreccio di citazioni arcaiche ed esigenze percettive su spazio e tempo. Il gioco temporale Mieli lo aveva analizzato e ben movimentato nel suo film d’esordio Dieci inverni dove la storia d’amore era raccontata utilizzando le ellissi delle stagioni mancanti, qui prova a farsi contemporaneità. La complicità di Desideria Reyner al montaggio non è secondaria nell’aggiungere garbo al racconto.

E RIMANGONO impigliate nella memoria, poiché di un film si tratta, anche frammenti di scene cinematografiche, la neve di Fellini, l’ albero di Tarkovskij, l’Antonia Pozzi interpretata da Laura Caridi, mentre di Marinelli sono date come per dissolte le interpretazioni più estreme.
Senza assumere toni pedanti, ma mantenendo un’impostazione piuttosto fluida ed aggraziata, si procede verso l’inevitabile «panta rei», la storia d’amore che inevitabilmente finisce (non ci sarebbe neanche bisogno di fare anticipazioni) passando per scene di sesso realizzate con la stessa cura elegante dei meandri psicologici che tentano l’ambito del surreale. Il ricordo è l’essenza stessa del cinema, in assenza di home video e fotografie, oggi che tutto è autoripreso il film ricorda quale sorprendente telecamera è la mente esperta nel montaggio, nella cancellazione, nell’autocelebrazione, nel fare della propria vita un oggetto solitario di culto.