Negli ultimi due giorni le trattative sull’asse New Delhi – Pechino per normalizzare la situazione lungo il confine himalayano conteso hanno dato frutti incoraggianti.

Lunedì 22 giugno il tenente generale Harinder Singh e il maggior generale Liu Lin hanno tenuto un colloquio di dieci ore a Moldo, località nel lato cinese della Line of Actual Control (Lac), la frontiera – non demarcata né sulle cartine né sul campo – che divide i territori himalayani controllati da Cina e India. Un vertice alla presenza dagli stessi alti ufficiali dei rispettivi eserciti si era tenuto sempre a Moldo lo scorso 6 giugno, quando i due schieramenti avevano trovato un accordo di massima per procedere a una de-escalation progressiva lungo la Lac e porre fine a scontri sul campo sempre più frequenti dall’inizio di maggio.

Le cose, come sappiamo, non andarono come pattuito, deflagrando nella battaglia del 15 giugno: 20 morti tra le truppe indiane, bilancio ancora sconosciuto da lato cinese, e rapporti bilaterali ai minimi degli ultimi cinquant’anni.

Secondo fonti militari riportate dai media indiani, l’incontro dell’altro ieri si è tenuto in un’atmosfera «cordiale, positiva e costruttiva», ribadendo la volontà di entrambe le parti di concretizzare un «mutuo disimpegno» militare. Si annuncia quindi una progressiva ritirata di uomini e mezzi che, soprattutto dal lato cinese, nell’ultimo mese e mezzo avevano affollato vallate e passi a più di quattromila metri sul livello del mare. Completamente disabitati, ma dall’alto valore strategico militare.

Fin dove, geograficamente, si spingerà la de-escalation rimane tuttora un contenzioso aperto che comporta, specie entro i confini indiani, una serie di problemi politici. La Cina continua a rivendicare il controllo esclusivo dell’intera valle di Galwan, teatro dello scontro del 15 giugno. Posizione che, secondo l’India, Pechino ha espresso solo quest’anno per la prima volta dal 1962, nel tentativo di chiudere la partita himalayana con un’espansione territoriale che modificherebbe lo status-quo pre-maggio 2020.

Se da un lato il governo indiano ha chiarito di non essere disposto ad accettare alcuna variazione dello status-quo, dall’altro lo stesso primo ministro Narendra Modi ha contribuito a complicare, e di molto, la posizione indiana al tavolo delle trattative. La scorsa settimana, in un discorso trasmesso dalle principali emittenti televisive indiane, Modi aveva spiegato che da maggio «non c’è stata alcuna invasione territoriale». Tesi non solo confutata da numerose ricostruzioni giornalistiche, ma anche in contrasto con la precedente versione indiana della «spedizione punitiva» cinese contro le truppe nella valle di Galwan. Se, insomma, i cinesi non hanno sconfinato, dove erano i soldati indiani quando sono morti? In territorio cinese, come sostiene Pechino? E se sì, chiedono le opposizioni, perché sono stati massacrati senza nemmeno sparare un colpo per difendersi?

La seconda novità riguarda proprio l’uso delle armi da fuoco lungo la Lac. Secondo accordi bilaterali in vigore dal 1996, i soldati cinesi e indiani sull’Himalaya non possono utilizzare armi da fuoco o esplosivi nell’eventualità di scontri: regole d’ingaggio imposte dall’alto per evitare un’escalation del conflitto che interessa due potenze nucleari.

Sempre lunedì 22 giugno, Modi ha accordato «totale libertà d’azione» ai comandanti delle truppe sul campo, togliendo il divieto di uso di armi da fuoco lungo la Lac. La risposta è arrivata dalle colonne del Global Times: «Se i vostri uomini non hanno sconfitto i soldati cinesi nemmeno da disarmati, le armi non vi aiuteranno».