Esattamente quarant’anni fa Edward Said pubblicava Orientalism, un saggio destinato a lasciare tracce profonde non solo negli studi sul Medio Oriente e l’Asia, ma più in generale sulla nozione di identità culturale e sui meccanismi attraverso i quali essa si costruisce, passando attraverso la dialettica di opposizione/contrapposizione. Quel testo ha forzato una intera generazione di studiosi a prendere coscienza del necessario distanziamento da una tradizione affollata di stereotipi, formule e gabbie generalizzanti abitualmente utilizzate per indagare e descrivere le cosiddette culture orientali. Con Iroiro Il Giappone tra pop e sublime (De Agostini, pp. 237, euro 16,00) da poco in libreria, Giorgio Amitrano ci restituisce la libertà dello stupore, il diritto di dirci affascinati senza timore di venire tacciati di esotismo, e ci consente l’esperienza riassunta da Barthes quando invitata a «riaffermare il piacere del testo contro l’indifferenza scientifica e il puritanesimo dell’analisi sociologica, contro l’appiattimento della letteratura a suo semplice apprezzamento».

Dietro esortazione di Cesare Garboli
È attraverso una miriade di citazioni disseminate fra le pagine di Amitrano che prende vita il Giappone più intimamente conosciuto e amato: da Kawabata Yasunari a Mishima Yukio, da Murakami Haruki a Yoshimoto Banana, da Miyazawa Kenji a Sakaguchi Ango, dal cinema di fantascienza degli anni Cinquanta all’arte fotografica di Sugimoto Hiroshi, le cui opere non vengono dissezionate con il camice asettico del critico-anatomopatologo, bensì gustate e offerte al piacere del lettore.

Il termine Iroiro si scrive con il carattere di «colore», e raddoppiato suggerisce la molteplicità: alla policromia si aggiunge una sottile venatura sensuale, e l’allusione alla leggerezza, alle tessere dell’esperienza che vanno a ricomporre un racconto del Giappone capace di conservare il sapore della scoperta non solo intellettuale ma emotiva. Un moderno zuihitsu, dunque, termine che – ci dice Amitrano – il dizionario Daijisen definisce come un testo in cui l’autore, affidandosi al pennello, traduce nella scrittura in forma libera le proprie conoscenze, esperienze, riflessioni.

Il più antico esempio di zuihitsu giunto fino a noi è il Makura no soshi (Note del guanciale) di Sei Shonagon, una delle più grandi scrittrici e poetesse giapponesi dell’epoca Heian, dama di compagnia alla corte dell’imperatrice Teishi alla fine del X secolo.
I fogli sui quali scrivere Iro iro a Giorgio Amitrano li ha metaforicamente regalati Cesare Garboli, incoraggiandolo così: «Devi scrivere questo libro con abbandono, non come se fosse un peso. Io ti ho gettato un seme e sta a te adesso farlo crescere. Non devi chiederti che albero sarà, pensare di far venire su un melo o un pero o magari un ciliegio perché è più giapponese. Devi amarlo, questo libro, e scriverlo in piena libertà. E amare te stesso mentre lo scrivi. Dev’essere un libro che nessun altro potrebbe scrivere. Un libro che puoi scrivere solo tu». Come le note Note di Sei Shonagon, anche il libro di Amitrano si muove nello spazio sottile tra empatia e distanza – l’antidoto migliore contro l’esotismo – scorrendo agile fra il pop e il sublime: due elementi che si rincorrono in tutte le culture, ma che in Giappone dialogano fin dall’epoca classica, per esempio nel teatro, dove la solennità del no si lascia interrompere dal modo farsesco del kyogen. A partire dal dopoguerra, la cultura popolare, con il boom del cinema di animazione, della musica pop, del manga ha invaso campi che prima le erano preclusi, a cominciare da quello della letteratura.

Il caso Murakami
Un esempio emblematico è Murakami Haruki, autore che «esprime una percezione della realtà globalmente diffusa – scrive Amitrano – ma ancora in gran parte sommersa, che (…) calandosi nel pozzo dell’inconscio, riesce a portare alla luce. I lettori riconoscono nei suoi romanzi (e racconti) il senso di crescente irrealtà e conseguente inquietudine che si sono infiltrati nella vita di tutti». Autore accomunato ad alcuni tra i protagonisti dell’arte visiva contemporanea giapponese come Sugimoto Hiroshi, Morimura Yasumasa, Ishida Tetsuya, Murakami ne condivide quello sguardo attento e meticoloso, che consente di mantenersi in bilico sul confine sottile tra realtà e irrealtà. Nelle pagine di Amitrano troviamo anche i caffè, il karaoke con gli enka di Misora Hibari, i ciliegi in fiore, il cinema di Naruse Mikio, insomma un ritratto del Giappone immune da qualsivoglia manierismo, che esibisce un rapporto molto più dinamico e meno conservatore con la tradizione di quanto ci piaccia pensare. Proprio il pop, del resto, «ha restituito al Giappone – scrive Amitrano – l’armonia tra serietà e leggerezza che era stata sempre una sua dote preziosa».