Nel 1996 il negazionista inglese David Irving intentò una causa contro la casa editrice Penguin Books e la docente di Studi ebraici moderni e dell’Olocausto dell’Università di Atlanta, Deborah E. Lipstadt, rea di averlo diffamato nel libro Denying the Holocaust.
Senza mezzi termini, Irving veniva definito un apologeta del nazismo, un mistificatore che attraverso la sistematica falsificazione dei fatti negava che lo sterminio degli ebrei fosse realmente avvenuto.

In un’epoca non ancora legata indissolubilmente alla frenetica e incontrollata circolazione delle opinioni attraverso la Rete, con le conseguenze positive e negative che possiamo immaginare, il caso giudiziario non fu comunque di facile interpretazione.

Sia per l’inconsistenza dei pensieri che circolavano dentro e fuori i media che, a poco più di cinquant’anni di distanza dall’orrore dei campi di concentramento, trattavano questioni del genere come si trattasse di un gossip qualsiasi, sia per la peculiarità del diritto inglese che impone al presunto reo di dimostrare la propria innocenza. Nel caso specifico, Lipstadt si trovava nella posizione paradossale di dover documentare l’annientamento degli ebrei sin dalla sua pianificazione.

Questa è la premessa de La verità negata di Mick Jackson, presentato alla recente Festa del Cinema di Roma.
Un lavoro sul negazionismo che resta distante, in termini di coraggio e linguaggio cinematografico, da opere come Il signor morte di Erroll Morris, che raccontava la storia di Fred Leuchter, l’ingegnere che progettava sedie elettriche e che in qualità di esperto nel «dare morte» stilò un rapporto farneticante, ritenuto credibile dallo stesso Irving, nel quale si escludeva la possibilità che gli ebrei fossero stati uccisi in massa dentro le camere a gas perché, per un piano del genere, si potevano usare mezzi più «economici».

Naturalmente, né Leuchter né Irving erano in grado di riflettere, causa assenza di pensiero, sulla radicale novità che il regime totalitario nazista presentava, cioè che lo sterminio non fosse un semplice mezzo per ottenere qualcosa d’altro, ma il fine stesso di un progetto che mirava alla dis-umanizzazione dell’uomo.

Tratto dal libro di Lipstadt, Denial: Holocaust History on Trial, La verità negata si limita a riportare i fatti accaduti in quei quattro anni, concentrandosi sul punto di vista della professoressa di Atlanta e sulla sua squadra di avvocati che, per vincere la causa, decise di non chiamare a deporre, contro la loro volontà, sia Lipstadt che i sopravvissuti dei lager, impedendo così a Irving di mettere in scena un ulteriore spettacolo ripugnante.

In un film che sembra uno dei tanti thriller giudiziari, ben interpretato da un cast di primissimo livello, Auschwitz finisce col trasformarsi da laboratorio del totalitarismo e buco nero dell’umanità, a un semplice luogo del crimine dove è necessario rintracciare le prove di un delitto avvenuto tanti anni prima. Un’alterazione che nega inconsapevolmente verità più profonde