Cos’è la classe media? Va per la maggiore definirla in base al reddito, per cui ne farebbero parte tutti coloro in grado di fare acquisti discrezionali, non dettati cioè solo da bisogni primari, come il cibo, l’alloggio, il tetto sotto cui dormire. E fa niente se per qualcuno è «discrezionale» una bicicletta e per qualcun altro un panfilo. 
In questo modo, si infila nella classe media più della metà del genere umano. Basti dire che negli Usa, middle-class è sia il colletto bianco di Wall Street, sia quello blu delle fabbriche, sia il redneck sul trattore. E quando c’è crisi, il presidente Obama parla sempre di impoverimento della «classe media» e mai di proletariato.

Così definendo, si dice che il ceto medio asiatico avrebbe già sorpassato da qualche anno in termini numerici il suo corrispettivo occidentale. In Cina, se fila liscio il grande processo di costruzione del ceto medio in cui si è impegnata la leadership di Pechino, avremo settecento milioni di piccoli borghesi in meno di un decennio; in India sono già oltre duecento milioni; in Giappone e Corea, dove i numeri assoluti sono inferiori, in percentuale rappresentano però già quasi la totalità della popolazione. Complessivamente, in tutta l’Asia Orientale escluso il Giappone, ci dovrebbero già essere 981 milioni di umani dotati di reddito discrezionale. Con il Sol Levante, il miliardo è abbondantemente superato.

La aspettiamo speranzosi e un po’ la temiamo, questa strana specie: già ci invade città d’arte e sentieri alpini, ci compra le aziende così come il lusso made in Italy. Ci chiediamo se porta il sospirato denaro, se ci sta colonizzando o se tutte e due le cose. Qualcuno ci è familiare da decenni, come i giapponesi, altri spuntano oggi come funghi e non siamo sicuri che ci piacciano troppo: come i vocianti cinesi che si lamentano dei ristoranti delle nostre città d’arte perché non vi trovano la baojian, il privé dove esibire a tutta la famiglia il proprio appariscente benessere.

La middle-class asiatica non è un tutt’uno. Difficile quindi trovare un tratto comune.
Dal punto di vista dell’autopercezione, per esempio, l’agenzia di consulenza di Hong Kong Silk Road Associates ha scoperto che ben l’81 per cento degli indonesiani e il 74 per cento dei coreani si definiscono «classe media». Solo che il Pil pro capite della Corea del Sud è di sette volte superiore a quello dell’Indonesia. Appena il 48 per cento dei cinesi si colloca nel ceto medio: la solita precauzione dei sudditi del Celeste Impero? Forse è semplice realismo. Inoltre, che sia in crescita esponenziale, in difficoltà o già mezzo abortito, questo ceto medio d’Oriente ha i suoi bei problemi. Per esempio, di fronte alla crisi globale, anche da queste parti il futuro delle famiglie middle-class è percepito come incerto. I rispettivi governi sperano che ricomincino a spendere per riavviare l’economia, ma loro preferiscono generalmente risparmiare. C’è chi ci riesce (gli indiani), chi non ci riesce più (i coreani), chi non ha ancora capito bene che fare (i cinesi): godersi la vita o mettere fieno in cascina per una vecchiaia che sarà con ogni probabilità senza welfare?

Che dire poi del famoso dinamismo che per definizione contraddistingue la middle-class? In India si sogna ancora lo status di babu, l’impiegato statale incollato alla sedia, spesso per colpa della tradizione che non dà stimoli a potenziali Steve Jobs. Quanto ai sarariman giapponesi, stanno vivendo una vera e propria crisi di identità a causa della fine di un modello economico tutto incentrato sulla fedeltà all’impresa. In Corea del Sud, dove si cerca disperatamente il posto fisso nel grande conglomerato industriale, sono così preoccupati per la perdita di benessere che la minaccia Pyongyang passa decisamente in secondo piano e i suicidi aumentano. In Cina invece, dove dinamici lo sono per davvero, cominciano però a contestare lo stesso sistema che li ha creati. Il prezzo per essere ceto medio è troppo alto, se significa un cancro ai polmoni o un avvelenamento alimentare.

È proprio questo il fatto nuovo e il vero tratto comune. La classe media dell’Asia comincia a mettere in discussione i sistemi che l’hanno creata. Lo fa ancora in maniera sporadica, spesso individuale. Troppo recente è il ricordo della povertà da cui si è emersi e troppo ammiccante è la promessa di ulteriore benessere, per scegliere di giocarsi tutto in un dissenso esplicito e diffuso; troppo vincolanti sono ancora i sistemi culturali, le gerarchie di valori.
Ma le richieste si fanno sempre più complesse, articolate, difficili da gestire per governi che si sono giocati tutto sullo sviluppo e sul benessere materiale a ogni costo.
La rivoluzione non è un pranzo di gala, diceva Mao Zedong; è vederselo sfilare da sotto il naso, risponde la middle-class d’Oriente.