«Così non posso espormi al ridicolo di comprare i miei propri libri, tranne forse uno per Henri e uno per me. Vi è però un caso a parte, ed è il vostro. Sarei molto lusingato se sottoscriveste un esemplare, ma al contempo infelice come un condannato al supplizio se ciò vi costasse anche un solo centesimo. Se dunque non avete nulla in contrario a sottoscrivere un esemplare (…) fatelo, ditemelo, e vi spedirò subito i 300 fr a titolo di rimborso».
Questo passaggio di Marcel Proust è tratto dalla missiva più lunga e significativa accolta in Lettere al duca di Valentinois (Archinto, pp. 88, € 18,00), apparse, a cura di Jean-Marc Quaranta, nell’ottima traduzione di Francesco Bergamasco, e corredate da una prefazione di Jean-Yves Tadié, storico biografo di Proust. Si tratta di cinque lettere inedite, oltre a una indirizzata all’amico Robert de Montesquiou, scritte tra luglio e ottobre del 1920 a Pierre de Monaco, invitato dallo stesso Proust a sottoscrivere, paradossalmente a spese dell’autore, l’edizione di lusso in 50 esemplari di À l’ombre des jeunes filles en fleurs, impreziosita da alcune minute autografe.
La mancata risposta del corrispondente crea il risentimento dello scrittore che riverserà il suo astio nel personaggio ispirato a Pierre de Monaco che, nei Guermantes, prenderà le fattezze dell’ambiguo conte di Nassau. Nella prima lettera, in cui Proust non disdegna di dare consigli in chiave letteraria o proporsi come suo mentore, si legge: «La vostra voce decantata, semplice prolungamento visibile della preziosa vena, è il simbolo di pagine attese e necessarie, per la schiusa delle quali mi proporrei, se voi sentiste mancarvi il coraggio e lo slancio, come temporaneo incubatore artificiale». Ma il talento non è un uovo, Proust doveva saperlo bene, e Pierre de Monaco ne è privo. Questa lettera ha la particolarità di essere scritta sui margini di una riproduzione eliografica ricavata da un ritratto proustiano eseguito da Jacques-Émile Blanche, allestita per l’edizione di lusso summenzionata. Precisa il curatore nella sua postfazione che queste lettere «consentono di capire meglio il piccolo dramma consumatosi fra i due amici nell’estate del 1920. Informano sull’uomo che poteva essere Marcel Proust, sulla sua smania di tessere relazioni, il suo rapporto con l’amicizia, la malattia, il denaro, il suo desiderio di piacere, di essere utile fino a rendersi indispensabile, e insopportabile». Proust evita di rispondere «con il silenzio al vostro silenzio (…) per ridicola puerilità», come precisa nella quarta lettera proposta, in cui prende definitivamente le distanze dal suo evasivo interlocutore.
Uno dei maggiori esegeti italiani di Proust fu Giacomo Debenedetti, a proposito del quale Contini scrisse che fu «il primo critico letterario italiano, il solo forse che al servizio del genere critico abbia piegato le qualità di un vero scrittore». Debenedetti si occupò a più riprese dell’autore della Recherche: non è un caso che i suoi interventi critici formino un volume di Bollati Boringhieri, semplicemente intitolato Proust (2005), di oltre 400 pagine. Ora viene ristampato, a cura di Eleonora Marangoni, Un altro Proust (Sellerio «Il divano», pp. 136, € 10,00), originariamente apparso con il titolo Radiorecita su Marcel Proust (ma perché cambiare il titolo originale?) per le Edizioni Macchia nel 1952 e trasmesso per il terzo canale della Rai il 1° ottobre dello stesso anno. Il testo è una sorta di dialogo tra un critico, una donna e il pubblico, cadenzati dagli interventi di due lettori che propongono brani scelti di Proust. Basati principalmente sulla pubblicazione gallimardiana, avvenuta nel medesimo anno, del romanzo postumo Jean Santeuil e sulle sue indubbie corrispondenze con la Recherche, i dialoghi di Debenedetti si caratterizzano per la finezza delle argomentazioni, come quando si disquisisce intorno alle intermittences du cœur, alla «memoria involontaria» o al tentativo fallito di Jean Santeuil, considerato alla stregua di uno «scacco giovanile»: «Nell’antro da incantatore, tra i vapori dei suffumigi contro l’asma, fa rinascere, come quelle figure della lanterna magica che l’avevano affascinato nell’infanzia, tutti gli eventi e gli spettacoli, le figure umane e naturali, che gli erano passati accanto, senza che egli avesse coscienza di cavarne nulla, così come gli pareva, standoli a guardare, di non avere fatto nulla della sua propria vita».
Puntigliose le indicazioni del critico piemontese che, tra una digressione estetica e l’altra, antepone vari stacchi musicali: da Debussy a Wagner, da Saint-Saëns a Dukas, da Strauss a Beethoven. Ma anche «rumore di piatti rotti, sciacquio di remi, risacca marina, burrasca, carrozza al trotto». Debenedetti riesce a conciliare la sua indiscussa acribia critica con spunti di autentica poesia: «Ai confini del romanticismo, Proust ha alzato un monumento, grandioso nella massa e minutissimo negli ornati, folto di personaggi e storie ed emblemi e statue, come le cattedrali gotiche che egli amava». Nell’attuale deserto editoriale parole che hanno il sapore della manna.