Dopo l’ennesima giornata di sangue nella regione dell’Oromia, dove la repressione delle proteste antigovernative ha provocato ancora la morte di almeno 10 persone e decine di feriti, il primo ministro etiope Hailemariam Desalegn ha rassegnato le sue dimissioni, «per favorire un soluzione pacifica» alla profonda crisi politica in cui si è avvitato il paese, come ha detto annunciando in tv la sua decisione.

Al centro della nuova ondata di proteste che rilancia l’annosa questione oromo (etnia maggioritaria in Etiopia, che da sempre lamenta pesanti discriminazioni), c’è la “finta” amnistia concessa da Desaleghn ai prigionieri politici. Una iniziativa che lo scorso 3 gennaio è stata data in pasto ai media e alla comunità internazionale, condita con il dettaglio glamour che la famigerata prigione di Maekelawi  sarebbe stata presto trasformata in museo. Nella realtà il regime si è limitato a liberare alcune  centinaia di detenuti “minori”, facendo salire la rabbia della piazza. Mercoledì era stato rilasciato il giornalista Eskinder Nega, condannato a 18 anni  nel 2012 per cospirazione, pianificazione di atti terroristici e incitamento alla violenza attraverso i suoi  articoli pubblicati online, ma la  procura generale ne aveva ordinato la liberazione già una settimana fa, dopo averlo prosciolto dalle accuse.  E anche  il segretario generale del Congresso federalista oromo (Ofc) Bekele Gerba,  è tornato in libertà dopo che l’accusa di terrorismo con cui era stato arrestato nel 2015 è stata  successivamente ridotta a «incitamento alla violenza».

La rivolta degli Oromo prosegue dal dicembre 2015, quando il governo ha ordinato  di abbattere una foresta per fare spazio a un progetto edilizio-urbanistico che  le popolazioni locali considerano letale per la loro sopravvivenza.