Le ultime proteste, domenica: è intervenuto l’esercito iracheno a disperdere due diverse manifestazioni, una di fronte al giacimento petrolifero di Qurna e una fuori dal consiglio provinciale, dove si erano accampate sotto le tende migliaia di persone. In entrambi i casi teatro della rabbia popolare è Bassora, scossa dall’8 luglio da proteste che in breve tempo hanno contagiato il sud sciita per arrivare a Baghdad.

Gli organizzatori delle proteste a Bassora hanno detto ad Agenzia Nova di aver dato tre giorni di tempo alla Basra Oil Company per rispondere alle richieste. E denunciano: l’esercito blocca l’arrivo di acqua e cibo ai manifestanti. Alcuni di loro, estrema forma di protesta, hanno stracciato le proprie lauree.

Con 48 gradi la carenza di elettricità ha spinto la gente nelle strade, a bloccare i giacimenti di greggio (l’80% delle riserve nazionali, eppure i black out elettrici sono continui tanto da doverne importare dall’Iran) e a portare in piazza la frustrazione per un cambiamento che non arriva mai.

Sono già 14 le vittime della repressione della polizia, uccisi da proiettili o gas lacrimogeni. Oltre 300 gli arrestati e quasi 800 i feriti a Najaf, Bassora, Karbala, Nassiriya, Dhi Qar, tra manifestanti e forze di sicurezza, con la gente che ha preso d’assalto uffici pubblici e le sedi di alcuni partiti politici.

A Baghdad il clima è incandescente: il premier al-Abadi, ancora al suo posto dopo le elezioni del 12 maggio che non hanno portato ancora alla formazione di un governo, vuole essere riconfermato e cerca di placare la rabbia. Dopo aver tentato senza successo di soffocare le proteste inviando l’esercito e oscurando internet, domenica ha sospeso il ministro dell’Energia, Qassim al-Fahdawi e ordinato un’inchiesta sul suo operato, capro espiatorio al disastro energetico del paese quinto al mondo per riserve petrolifere.

Ma il problema non è solo l’elettricità. Nelle piazze si sta protestando – in modo spontaneo, senza la direzione di una fazione politica – per la mancanza di lavoro (non a caso a Bassora le tribù hanno bloccato gli stabilimenti chiedendo che le compagnie internazionali assumano i giovani della zona, invece di dipendenti straniteri), per la corruzione rampante, per la carenza di acqua potabile e di un servizio efficiente di raccolta dei rifiuti.

Il tutto a fronte di 40 miliardi di dollari spesi dal 2003, dalla caduta di Saddam, per rimettere in piedi il sistema energetico distrutto dall’invasione Usa. Secondo al-Abadi, che cerca conferme nell’inchiesta, da allora le istituzioni irachene avrebbero siglato oltre 5mila contratti-fantasma che non si sono mai tradotti in lavori effettivi.

A parlare a favore degli iracheni è l’ayatollah Ali al-Sistani, la guida spirituale sciita irachena che fin dalle prime proteste ha preso le parti dei manifestanti. Nel tradizionale sermone del venerdì, pochi giorni fa, ha fatto appello alle forze politiche perché formino al più presto un esecutivo in grado di affrontare seriamente la questione corruzione e lo stato misero dei servizi. Nell’attesa, ha detto al-Sistani da Karbala, anche questa scossa dalle proteste, «l’attuale governo lavori duro, con urgenza, per rispondere alle richieste dei cittadini e ridurre sofferenza e miseria».

Una miseria concreta, terribile, che è tornata a prevalere sulle speranze che il voto di due mesi e mezzo fa aveva in parte riacceso. Se la metà degli iracheni aveva disertato le urne, l’altra metà aveva votato per partiti “alternativi” all’establishment post-Saddam, la coalizione sadristi-comunisti e le milizie sciite.

Ma a prevalere è lo stallo, fomentato anche dal riconteggio dei voti dopo denunce di scorrettezze. In un simile contesto l’Iran fa le sue mosse: il 6 luglio Teheran ha ridotto le forniture di elettricità al sud dell’Iraq, due giorni dopo è esplosa la rabbia.

Fatto non casuale, la Repubblica Islamica manda un messaggio al fronte anti-Iran e all’amministrazione Trump in particolare: possiamo generare il caos nella regione.