A nulla sono servite le promesse del trentennale presidente Omar al-Bashir: le proteste in Sudan non si fermano. Ieri a Port Sudan la polizia ha lanciato lacrimogeni su centinaia di manifestanti che tentavano di raggiungere il quartier generale del National Congress party, il partito di Bashir per consegnare una petizione: chiedono lo scioglimento del governo e la formazione di un esecutivo di transizione che organizzi nuove elezioni.

A sostenere la petizione sono le opposizioni, l’islamista moderato Umma party, il Reform Now movement (appena uscito dal governo) e il liberale Democratic unionist party. Nonostante gli arresti e l’uccisione di manifestanti (37 secondo Amnesty) e la brutale dispersione delle proteste che da prima di Natale accendono il paese, continuano a chiedere le dimissioni del presidente. Che se la prende – altri regimi insegnano – con un presunto complotto internazionale per far collassare il Sudan.

«Siamo soggetti a guerra e sanzioni, ma il Sudan resiste», ha detto ieri indicando nelle restrizioni Usa la radice della crisi economica. Ma se a portare la gente in piazza sono state l’inflazione alle stelle, la scarsità di pane e carburante e il mancato aumento dei salari, ora i manifestanti chiedono la cacciata di Bashir. Nuove proteste sono previste oggi e domenica.