Alla quinta settimana di rivolta anti-governativa da parte del popolo haitiano, il presidente Jovenel Moïse resta abbarbicato alla sua poltrona. Nessuno o quasi nel paese lo vuole più, ma dalla sua ha ancora l’appoggio degli Stati uniti e del Core goup, il gruppo dei cosiddetti “amici di Haiti” (fintamente) preoccupati per la stabilità del paese malgrado l’unica cosa attualmente stabile sia proprio la crisi.

Una crisi che, tra la mancanza di combustibile e le manifestazioni che si succedono quasi quotidianamente, con un bilancio provvisorio di 19 morti e 200 feriti, ha condotto alla pressoché totale paralisi non solo del trasporto pubblico ma di tutta l’attività economica, oltre alla sospensione dell’attività scolastica ormai dall’inizio di settembre.

«Sarebbe irresponsabile, da parte mia, rinunciare», ha dichiarato il presidente rivolgendosi martedì alla nazione, senza chiarire cosa esattamente ci sarebbe di responsabile nel restare alla guida di un paese che ne chiede le dimissioni e che, per sua stessa ammissione, sta «peggio» di come si trovasse prima di lui.

Ma più che assumersi la responsabilità della crisi, Moïse ha tentato, in realtà, di scaricarla su generici poteri economici che manterrebbero bloccato il paese, esponendosi così alla facile obiezione del portavoce del Settore democratico e popolare André Michel, il quale gli ha negato «l’autorità morale» per attaccare i responsabili del sistema di esclusione, essendo stati proprio questi a finanziarne la campagna elettorale.

Così, erano passati appena pochi minuti dal discorso presidenziale, con tanto di rinnovato invito a negoziare una soluzione pacifica della crisi, che già i manifestanti indignati procedevano a bloccare diverse strade del paese. Una protesta che, come tutto sembra indicare, andrà avanti finché non avrà raggiunto il suo obiettivo: ottenere la rinuncia di Moïse.

E mentre Haiti sprofonda sempre più nel caos, si conclude ufficialmente, e nella maniera più ingloriosa, la missione delle forze di pace delle Nazioni Unite (Minustah), di fronte alla cui sede, il 4 ottobre, si sono radunati migliaia di manifestanti per esigere la rottura delle relazioni con il governo. Se ne va, la Minustah, con un bilancio totalmente fallimentare: «Né la stabilizzazione, né la ricostruzione, né la pacificazione, né la giustizia – sottolinea il sociologo Lautaro Rivara – sono state neppure lontanamente raggiunte».