«Rivoluzioni» o «rivolte»? Fin dalle loro prime manifestazioni, le cosiddette «primavere arabe» hanno diviso tutti coloro che cercavano di definirle. Chi non esitava a parlare di «rivoluzioni», chi invece negava l’impiego di un termine così impegnativo e si limitava a considerarle delle «rivolte», rivelatrici di malesseri passeggeri ma prive di un’autentica carica rivoluzionaria. Ancora oggi gli osservatori sono divisi: non si tratta di un mero puntiglio lessicale. Il nocciolo della questione è il grado di consapevolezza di coloro che ne furono i protagonisti. Masse scontente ma assuefatte alla schiavitù e incapaci di concepire un reale cambiamento, o popoli che per la prima volta esprimevano una nascente sensibilità democratica insofferente a ingiustizia, corruzione e tirannide?

Questo dilemma informa di sé ogni pagina del nuovo romanzo di ‘Ala al-Aswani, Sono corso verso il Nilo (traduzione di Elisabetta Bartuli e Cristina Dozio, Feltrinelli, pp. 382, € 18,00) ambientato proprio nel cuore degli avvenimenti che nel 2011 portarono alla caduta di Mubarak in Egitto sulla scia delle manifestazioni dei «ragazzi di piazza Tahrir». I personaggi che animano il libro sono tutti profondamente toccati dagli eventi, e pur muovendo da condizioni di partenza assai lontane, le storie personali finiscono per intrecciarsi.

Eterne umiliazioni
Nella loro eterogeneità, agiscono secondo motivazioni e logiche tutte diverse, ma leggibili, in definitiva, alla luce della risposta che ciascuno di loro dà al dilemma rivoluzione-rivolta. Gli avversari del cambiamento e registi della restaurazione credono – o vogliono credere – che «gli egiziani sono servili e assoggettati per natura», e questo vuoi per radicata convinzione (il generale ‘Alwani, capo dei Servizi), vuoi per paura e opportunismo (la maggioranza), vuoi infine per delusione, come acccade all’ingegner ‘Issam, coinvolto da ragazzo nelle proteste studentesche contro il regime e spezzato da un’umiliazione che non lo abbandonerà per tutta la vita.
Viceversa, i più impegnati per il cambiamento appartengono alla categoria di coloro che vogliono credere nel risveglio delle coscienze e sognano un’autentica rivoluzione, che faccia piazza pulita di un sistema corrotto restituendo al popolo la vera sovranità di un regime realmente democratico.

I personaggi del romanzo appartengono ai più diversi strati sociali dell’Egitto: ricchi e poveri, istruiti e analfabeti, musulmani e copti, classe dirigente e subordinati; eppure gli eventi li coinvolgono tutti, obbligandoli a schierarsi, e proprio la portata universale degli accadimenti è emblematica di quanto realmente «rivoluzionario» sia stato questo moto. Anche se la sete di giustizia e cambiamento viene brutalmente repressa e appare perdente, le parole di Mazen, l’eroe positivo del romanzo, colgono nel segno: «non sarò più, né tu sarai più, come prima della rivoluzione. Chiunque vi abbia partecipato è cambiato per sempre».

Nonostante il mutare delle epoche e dei regimi, il panorama di corruzione diffusa, arroganza dei potenti, impotente accettazione e adattamento ai compromessi da parte della maggioranza della popolazione non appare fondamentalmente mutato rispetto alle epoche di ambientazione di Cairo Automobile Club (vigilia della rivoluzione nasseriana) e di Palazzo Yacoubian (inizio anni Novanta); ma se in quest’ultima opera la sola via d’uscita rivoluzionaria per le vittime dell’ingiustizia sembra essere la scelta nichilista del terrorismo islamico, Sono corso verso il Nilo apre la porta alla speranza: le proteste di piazza Tahrir fanno balenare la prospettiva di un cambiamento, questo sì, davvero epocale, nelle coscienze e nella società.

Chissà se davvero, un giorno l’Egitto sarà una repubblica nel vero senso della parola e non «una repubblica per modo di dire», come lo definisce Asma’, la fidanzata di Mazen quando, a differenza di lui, deciso a rimanere, la giovane si rifugia in Inghilterra, «un paese che ti rispetta in quanto essere umano, in cui senti di valere qualcosa, di non essere “una nullità”».

La vena narrativa di al-Aswani – valorizzata da una eccellente traduzione – è sempre molto felice: e fin dalle prime pagine il lettore si sente immerso nella vicenda grazie alla sua capacità di illustrare con precisione e senza sbavature retoriche il punto di vista dei singoli personaggi, quasi fornendo un reportage fotografico, in grado di trasmettere, meglio di qualunque analisi accademica, il senso che questi rivolgimenti hanno avuto per coloro che li hanno vissuti. Del resto, lo scrittore stesso vi ha preso parte, ha condiviso le speranze, i timori e gli entusiasmi per una nazione ritrovata, e ciò che si vede trasposto nella dimensione del romanzo, attinge a piene mani a esperienze reali.
Se è evidente, com’è ovvio, che l’autore parteggia per i giovani idealisti, la sua bravura emerge nella capacità di tratteggiare i caratteri dei loro avversari, senza demonizzarli ma mostrandone le meschine qualità umane. Il capo dei servizi, l’individuo che cinicamente complotta per far fallire la protesta con ogni mezzo, non è, nella sua dimensione privata, un individuo particolarmente sanguinario. La violenza (spari sui manifestanti, torture e umiliazioni dei prigionieri, invio di energumeni a creare un clima di insicurezza) fa parte del suo mestiere, ma è nobilitata dalla necessità di mantenere l’ordine, proprio come la visione della tv porno è lecita ai suoi occhi perché gli permette di assolvere il debito coniugale con una moglie ormai poco desiderabile. Le sue giornate sono scandite secondo quella che è la ordinata e tranquilla vita di un buon musulmano padre di famiglia: un caso esemplare di «banalità del male».

Del tutto cinico e ipocrita è invece ogni discorso dei leader religiosi, pronti ad avallare con detti coranici, qualunque porcheria attuata dai potenti. La scena dell’incontro dello sheikh Shamel con un padre pazzo di dolore per la morte del figlio, ucciso da un poliziotto, è di rara efficacia. L’oscena offerta di un risarcimento in denaro, il «prezzo del sangue in accordo con la legislazione religiosa islamica» in cambio del ritiro della denuncia, si apre con l’excusatio non petita: «Giuro su Dio nelle cui mani è il mio destino di avere come unico scopo il Bene». Ogni parola seguente non fa che accrescere il baratro che separa la vuota retorica del religioso venduto alla causa dei militari dall’abisso di disperazione di una famiglia di colpo privata della vita di un ragazzo.

Complottismi di sinistra
Quanto al dilemma che pervade tutto il libro, mentre si leggono le pagine in cui cinicamente viene fabbricata di sana pianta, e poi diffusa ossessivamente nei media, l’accusa di un’origine esterna della rivolta ad opera di malefiche potenze straniere, viene da riflettere su quanto sia oggi diffusa, anche a sinistra, la tendenza a interpretare le primavere arabe semplicemente come parte di un piano destabilizzante dei padroni del mondo.

Se nel passato si è accolto forse troppo acriticamente lo slogan della «lotta di popolo» come unico motore della storia, questa conversione al complottismo, pur rivestita da un atteggiamento antimperialista, rischia di trascurare, umiliandoli ingiustamente, tutti coloro –- e sono tanti –- che in quei paesi hanno creduto possibile un riscatto e, tra mille difficoltà, ci credono ancora.