La mobilità urbana, si sa, è causa importante delle emissioni di CO2 in atmosfera, di mortalità per effetto dell’inquinamento da particolato, di stress per la congestione, di perdita di tempo per gli spostamenti. L’attuale modello di mobilità presenta aspetti negativi sia sul piano ambientale sia su quello sociale e psicologico.

IL PROBLEMA, OVVIAMENTE, è da lungo tempo esaminato, e si è giunti alla conclusione che per ridurre le emissioni di CO2 e l’impatto sulla salute occorre ridisegnare le nostre città. I manuali di progettazione urbana sostenibile sono concordi nel dire che la città deve essere policentrica, densa e diversificata; ciò perché, al fine di ridurre le emissioni di CO2 e l’impatto sulla salute dovuti alla mobilità, occorre che la distribuzione dei servizi sia tale che quelli usati più frequentemente siano raggiungibili a piedi o in bicicletta in pochi minuti. Questo è il modello su cui si fonda la mobilità sostenibile e questa è la linea su cui si muove Parigi.

SI TRATTA DI UNA RIVOLUZIONE non da poco, ed è lecito domandarsi: una città con queste caratteristiche è anche una città in cui è bello vivere, è meglio di quella attuale? Una risposta a questo interrogativo viene dall’interessante libro di Ezio Manzini, Abitare la prossimità – Idee per una città dei 15 minuti, edito da Egea. Un libro che ribalta il punto di vista e mostra come proprio al fine di essere vivibile, ricca di valori e desiderabile una città deve essere caratterizzata dalla prossimità, cioè deve essere una città «in cui tutto ciò che serve quotidianamente stia a pochi minuti a piedi da dove si abita». La sostenibilità della mobilità, quindi, è la conseguenza dell’essere città vivibile e desiderabile. Ma quale è il vantaggio della prossimità, in termini sociali?

LA RISPOSTA E’ CHE QUESTA prossimità funzionale permette che si generi una «prossimità relazionale, grazie a cui le persone abbiano più opportunità di incontrarsi, sostenersi a vicenda, avere cura reciproca e dell’ambiente, collaborare per raggiungere assieme degli obiettivi». Ecco: rinforzo dei rapporti umani, cura reciproca e valorizzazione dei beni comuni sono prodotti della città della prossimità. «La città delle prossimità è la città della cura… non c’è cura senza prossimità. E non c’è prossimità senza cura…. Si può dire che la città delle prossimità è anche la città dei beni comuni: non c’è bene comune senza una comunità che se ne prenda cura». E tutto questo si intreccia con la sostenibilità della mobilità.

PER SPIEGARCI CHE TIPO di città intenda, Manzini cita gli affreschi Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo, di Ambrogio Lorenzetti, dove si vede che la città ben governata è «una città compatta, ricca di luoghi pubblici e privati in cui diversi gruppi di persone sono intenti in una varietà di attività produttive e riproduttive: una città complessa che ribolle di vita, circondata da una campagna a sua volta ricca e diversificata».

E COSI’ DOVREBBE ESSERE una città delle prossimità, una città in cui è desiderabile vivere: «una città a scala umana, densa e diversificata nelle funzioni, caratterizzata da spazi pubblici e da un mix di attività residenziali e produttive». L’esempio non indica che si debba tornare al medioevo, tutt’altro, perché oggi abbiamo l’ausilio delle tecnologie digitali, che permettono di favorire la «riorganizzazione dei sistemi produttivi e di servizio in forma distribuita. Infatti, tecnologie digitali e connettività offrono la possibilità di riportare una serie di servizi e di attività in prossimità, cioè nelle vicinanze delle persone interessate»

E NON SOLO: SI PUO’ promuovere «l’innovazione sociale nel lavoro: il rilancio del commercio locale, le nuove forme di artigianato digitale o tradizionale e i coworking di quartiere per i nuovi lavori online». E le tecnologie digitali assicurano pure che l’abitare la prossimità non finisca per portare a richiudersi in un localismo asfittico. Infatti permettono che si attivi un «localismo cosmopolita… visto come un equilibrio tra l’essere radicati in un dato luogo e in un data comunità, e l’essere aperti a flussi globali di idee, informazioni, persone, cose e denaro». Infine, ci ricorda Manzini, «una città, un quartiere, un servizio sociale, un’impresa sono sistemi irriducibilmente complessi. Ciascuno di essi è il risultato di un intrico di interazioni, che non può mai essere conosciuto e controllato nella sua interezza». La conclusione è che la città della prossimità non è progettabile in senso stretto: non è un progetto che si esegue, ma un processo che si segue.