Qualche mese fa, ritirando un premio intitolato a W.E.B. Du Bois nell’aula magna di Harvard, il regista Steve McQueen dichiarava: «la sola regola che seguo come artista è di impedire che la polvere del passato si depositi». L’artista black-british ha usato la parola dust, ma avrebbe potuto dire anche ashes, come il titolo del suo lavoro selezionato da Okwui Enwezor all’Arsenale per la 56ma Biennale, dedicata a «tutti i futuri del mondo». Ashes è la storia di un futuro interrotto, il nome di un ragazzo caraibico che in un breve super8 girato una ventina di anni fa da un amico di McQueen vediamo ondeggiare sulla prua di una barca, giocare e cadere tra le onde, ammiccare e sorridere di fronte a una macchina da presa in adorazione. Quella pellicola rimane negli archivi dell’artista, scarto di un progetto su Grenada, isola originaria dei suoi genitori. Ma gli resta conficcata nella memoria e per questo riaffiora in laguna.

Sull’altro lato dello schermo, in uno spazio ritagliato ai limiti dell’asfissia, si vede il lavoro paziente di rifinitura e stuccatura di una tomba, e la deposizione di una targa: «Ashes 1980-2002, a boy». La storia di Ashes la racconta una voce fuori campo. Dice di un ragazzo che passa una notte su un’isola vicina e torna con qualcosa, della droga trovata per caso, che crede possa cambiargli e invece gli costerà la vita, freddato sotto gli occhi degli amici da sicari a caccia della refurtiva: «and that was about it». Quante storie come questa, sembra chiedersi McQueen pensando forse a Ferguson o a Baltimora. Quella di Ashes però è una storia, unica come tutte, e per questo va raccontata. Chi vuole può prendere una grande fotografia accanto allo schermo in cui le parole del racconto sono sovrimpresse all’immagine sgranata di Ashes di schiena a prua della sua barca: un modo per non lasciare che la cenere si accumuli.

Una parabola anticoloniale

Altri passati da riscattare dalla polvere, e sempre ai Carabi: il padiglione polacco ai Giardini ospita Halka/Haiti, un lavoro (e forse un dialogo con quello di Yael Bartana di due edizioni fa) di Joanna Malinowska e Carl Jasper realizzato a Cazale, un villaggio a pochi chilometri da Port-au–Prince. Cazale ospita ancora oggi un manipolo di discendenti creolizzati dei soldati polacchi arruolati nel 1802 da Napoleone – per reprimere l’insurrezione antischiavista di Toussaint Louverture a Santo Domingo e cercare di impedire la successiva indipendenza di Haiti con Jean-Jacques Dessalines – che hanno finito per rivoltarsi contro i francesi e combattere a fianco degli schiavi insorti (parabola anticoloniale che anticipa di 40 anni quella degli irlandesi del St Patrick Batallon in Messico, a Churubusco, soggetto dell’omonima graphic novel di Andrea Ferraris recensita su questo giornale il 2 luglio). Halka invece è un’opera lirica tardo-romantica, un po’ stucchevole e all’epoca di grande successo, riallestita con tanto di soprano, tenore e baritono polacchi e orchestra haitiana lungo la strada sterrata che taglia Cazale, sotto lo sguardo curioso di abitanti e animali, disturbata solo da qualche scooter di passaggio. Forse è stata fatta della mitologia, ad Haiti, sulla reale consistenza dei ribelli polacchi e della loro discendenza, ma non importa più di tanto: aiuta a togliere polvere e riaprire la storia, a far vedere come il mondo si sia creolizzato subito, provincializzando l’Europa.

Provincializzare l’Occidente è anche l’obiettivo del progetto di Vincent Meessen nel padiglione belga di cui parlava già Giovanna Zapperi su questo giornale: una critica della modernità coloniale che sfida ogni versione ufficiale, «re-iscrivendo quanto è assente, cancellato o marginalizzato dal presente». I diversi artisti invitati da Meessen esplorano la trama globale che salda l’esperienza dei movimenti di liberazione anticoloniale, il Sessantotto globale e le avanguardie rivoluzionarie dada, CoBrA e situazioniste. Tra questi il lavoro dello stesso Meessen, dove, sulle note di una canzone riscoperta che batteva il tempo del Sessantotto a Kinshasa, l’ultimo dei situazionisti locali rassicura al telefono Raoul Vaneigem affermando che tocca all’Africa proseguire con «gratitudine anticoloniale» la rotta aperta da Debord e soci.

In realtà l’Africa sembra essere l’approdo più congegnale per i situazionisti di oggi, come testimoniano tra l’arsenale e il padiglione centrale gli interventi di Samson Kambalu, artista di origini malawiane che racconta storie possibili del presente e del passato del Malawi attraverso brevi folgoranti finestre in super8, e si getta sulle tracce del situazionista italiano Gianfranco Sanguineti, recuperandone la corrispondenza con Debord, donazioni a Valpreda,.
Cosa ci dicono questi detournement? Quanta polvere spazzano via? Quali futuri fanno vedere?

Altre polveri da spazzare, come quella sollevata da due uomini all’interno di una chiesa sventrata, in Martyr Construction, lavoro alle corderie dell’urban activist di Chicago Theaster Gates, che reagisce alla distruzione di luoghi afroamericani e ispanici riportando in vita materiali abbandonati. E soprattutto altri ritorni: quello realizzato da Maria Papadimitriou nel padiglione greco, che trasferisce ai Giardini una conceria di Atene chiusa dall’austerity e dal governo della crisi, lasciando che il proprietario ne racconti la storia; e ancora, quello più intimo di Joan Jonas nel padiglione degli Stati uniti, dedicato a creature dell’aria e dell’acqua che popolano il mondo dell’infanzia e «ritornano a noi senza parole», impollinando il presente di tracce di un passato che persiste. Forse il senso è proprio qui: trovare parole e immagini per raccontare queste cancellazioni e fare spazio a possibili «ritorni».

L’Europa provincializzata

Ai Giardini, nell’Arena realizzata dentro l’ex padiglione Italia, risuonano le parole scandite giorno per giorno dei tre libri del Capitale, riletti per avoid the dust to settle o, come diceva Krakauer, riscattare l’irredento. Rileggere, in questo caso, indica un movimento di riappropriazione, ispirato da una gratitudine anticoloniale che «provincializza l’Europa» (Chakrabarty): quella di Toussaint Louverture all’indomani della Rivoluzione dei lumi, dei soldati polacchi creolizzati ad Haiti, dei neosituazionisti africani. Un gesto che non si limita a disertare o abbandonare rotte, ma che, scacciando la polvere, le riscrive e le inverte. Non so fino a che punto il progetto complessivo di Enwezor sia riuscito: spesso la polvere ha il sopravvento, ed è una polvere insidiosa, molto appiccicosa, asfissiante. Eppure diversi futuri del mondo affiorano. E appaiono già inscritti nel passato decentrandone la trama e aiutandoci a intravedere strade diverse, postoccidentali e posteuropee, contro le ceneri austere e funebri del presente.