Iniziando a scrivere le vite di Teseo e di Romolo, Plutarco ammetteva di avventurarsi in un territorio remoto e insicuro, pieno di eventi prodigiosi, più adatto ai poeti che agli storici. In una biografia di Enea il tracciato appare analogo. Al tema non giovano rigori storici, che ritengano irrecuperabile il passato più antico, né sicurezze positivistiche, che sperino di distinguere una versione della leggenda più vera delle altre: serve la capacità di ascoltare le voci della tradizione, e di ritrovarne il senso. Con passo da classicista e antropologo muove dunque Mario Lentano nel suo Enea L’ultimo dei Troiani, il primo dei Romani (Salerno Editrice «Profili», pp. 240, € 19,00). La premessa chiarisce l’approccio al mito, ossia a «un racconto che rimane permanentemente allo stato fluido, senza mai cristallizzarsi in un versione definitiva». La leggenda di Enea, infatti, è narrata dagli antichi con molte versioni. Alle prese con le insolubili incongruenze e contraddizioni che ne derivano, il libro s’impegna, oltre il piacere del racconto, nel far emergere «a quali progetti culturali o strategie politiche o scelte letterarie» i vari racconti rispondano. Si coglie il nesso con un precedente lavoro, scritto da Lentano con Maurizio Bettini (Il mito di Enea. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Einaudi 2013). Eroe omerico, titolato ma non di primo piano, Enea divenne negli sviluppi successivi della leggenda un fondatore e un capostipite: quanto lo riguarda chiede perciò d’esser valutato, anche retrospettivamente, rispetto a questo esito.
Poiché di biografia si tratta, il libro segue per quanto possibile le vicende del personaggio, non la cronologia delle «fonti». Ne risulta valorizzata la fluidità della tradizione. Se la memoria dei lettori è saldamente costruita intorno al racconto dell’Eneide, è pur vero che la storia di Enea non raggiunse definitiva stabilità, né prima né dopo Virgilio. Come per ogni mito, vi furono versioni alternative, alcune «senza futuro», altre molto produttive. In epoche prossime al grande poema, furono scritte Eneidi «altre»: un ampio racconto sta nella Storia di Roma del greco Dionigi di Alicarnasso, interessanti accenni si leggono in Tito Livio, e mirabile – molto sfuggente – risulta il remake inserito da Ovidio nelle Metamorfosi, per «decostruire ironicamente il capolavoro del suo predecessore». Lo scavo della tradizione riveste un notevole interesse: la letteratura e la politica guardarono a Enea con differente prospettiva, e si interessarono a momenti diversi della sua saga. La poesia greca più antica, per esempio, si soffermò sulla preistoria del personaggio: poi, invece, il portentoso incontro tra il mortale Anchise e la dea Afrodite restò come antefatto più ingombrante che magnificante.

Si salvò a prezzo del tradimento?
Altri, ancor prima che Enea diventasse parte della storia di Roma, discussero aspetti un poco ambigui delle sue gesta: come l’accusa che egli si fosse salvato dall’eccidio di Troia a prezzo del tradimento. Virgilio attribuisce invece all’eroe il tentativo vano di salvare la città condannata, da cui lo distolgono solo ripetuti moniti divini. Quanto al destino di Enea dopo la distruzione della patria, una profezia, già presente nell’Iliade e poi variamente ripresa, assicurava a lui e alla sua discendenza un regno, ma senza determinarne il luogo, se in Troade o altrove. Il tormentato viaggio dei profughi verso l’Italia è così solo una, e non la più antica, delle possibilità esplorate dalla tradizione. Ciò implicava anche il problema, discusso pure dall’erudizione storico-antiquaria, se fosse pensabile (e in quali limiti) «contraddire» la narrazione autorevole di Omero. Comunque, proprio nell’accettazione del destino di esilio fu la svolta che (ri)fondò lo statuto eroico di Enea: non come un vinto condannato alla sconfitta, ma come un eroe colonizzatore e fondatore. In questo ruolo egli fu al centro nella costruzione dell’identità romana.
Eppure, anche dopo l’arrivo nella «antica madre», il raccordo tra la storia dell’eroe e le tradizioni locali restava un compito difficile, seppure necessario. Il posto dell’«eredità» troiana nel Lazio era ambiguo: bisognava, di fatto, trascolorare Enea e i suoi da troiani a italici, da orientali a occidentali. In Virgilio, un patto tra Giove e Giunone definisce i mores dominanti e i tratti recessivi nella nuova stirpe romana: dei troiani resta poco (Eneide, XII, 820-40): e già qui il titolo del libro trova pieno significato. Altre sfasature della saga non vennero risolte. Non si poté stabilire quante generazioni separassero Enea da Romolo, o chi fosse il capostipite della linea «italica» (il figlio della consorte troiana, o quello della nuova sposa?). Non erano solo questioni erudite: la genealogia ebbe rilevanza politica perché funzionale alla legittimazione dei Giulii, e in particolare dell’Augusto. Eppure, non tutto ciò che di Enea si scrisse, da allora, divenne ideologia (o propaganda). Ciò spiega, pur tra tanti detractores, perché l’archetipo di Enea conti ancora.
La sua «lunga durata» si vede anche in libreria. Di recente la saga è stata rivisitata, con toni ispirati, da Giulio Guidorizzi (Enea, lo straniero. Le origini di Roma, Einaudi 2020), in singolar tenzone con Andrea Marcolongo (La lezione di Enea, Laterza 2020). Ne deriverebbe per altro un «triello», in quanto c’è anche Roberto Piumini (Cuore d’eroe. La storia di Enea, Giunti 2017), che almeno è dichiaratamente rivolto ai fanciulli. Lentano invece ha verso i testi antichi l’attenzione propria del filologo, che evita le frasi a effetto o la narrazione compiaciuta, e invita a cogliere, fra tanti divaganti rivoli della tradizione, il senso culturale della leggenda. Emerge così Enea come eroe della «costruzione», dal carattere più tragico che epico, il cui tratto è definito non dalla libertà, ma dalla pietas, la «disponibilità del singolo a adempiere ai propri doveri verso un’istanza riconosciuta come superiore e vincolante» (p. 140), e la consapevole sottomissione del privato all’esigenza pubblica. Da ciò derivano anche famosi snodi della «biografia sentimentale»: Enea non cede alle lusinghe dell’eros, non lascia quindi, come un Marco Antonio qualunque, la missione affidatagli: né per causa di Didone, né per altre.

Vincitore triste, come Giulio Brogi
Non era facile raccontare questa tradizione così ramificata senza concedere qualcosa al dato erudito (storici in frammenti, oscuri epici minori…): Lentano trova un’esposizione non troppo densa o tecnica e spiega snodi complessi senza banalizzare. Spiccano così certe parole del momento, come «interlocuzione» (pp. 157 e 159): i futuri linguisti le useranno come «fossile guida», per datare queste pagine allo strano tempo in cui gli italiani usarono motti di avvocatesca compassatezza. Differente «segno dei tempi» pare lo spunto di attualizzazione che conclude il libro. Che Enea in quanto fondatore di imperi sia figura poco parlante per i contemporanei, è certamente vero: in quest’epoca sventurata e avida si fondano solo imperi commerciali. Più vicino alla sensibilità odierna risulterebbe allora Enea come «eroe umbratile, un vincitore triste» (e sovviene ancora il volto di Giulio Brogi…), e soprattutto come archetipo del migrante contemporaneo (p. 190). Questa lettura, avverte Lentano, non usa il mito in modo «distorto e persino strumentale»: una saga è polisemica e certo non ammette letture «ortodosse» o univoche. Che una migrazione vi sia, non si discute, è semmai la meta il problema. Certo, non tutta la tradizione conosceva guerre dei troiani all’arrivo in Italia (p. 108): ma che il loro insediamento nel Lazio possa dirsi la «faticosa conquista del diritto a ottenere quella accoglienza», suona eufemistico (almeno a chi ammetta il proprio «virgiliocentrismo»).
Gli astratti rigori della filologia non hanno sempre fatto del bene ai classici. Ma ci si può chiedere se il libero corso di rilettura e ricreazione non finisca per emarginare la centralità dei testi, in perenne metamorfosi. Quarant’anni fa, in un saggio uscito postumo, Marino Barchiesi indagava I moderni alla ricerca di Enea (Bulzoni 1981), con Aeneas at Washington di Allen Tate (1936) o i Dispersi di Heinz Piontek (1946). Altre migrazioni, dunque. Alla leggenda di Enea s’adatta la definizione che Barchiesi dava dell’Eneide, come poema «del mutamento e insieme del dolore del mutamento»: la vita di Enea sembra più complessa di quanto può stare nel paradigma del migrante. E poi, le letture attualizzanti possono mutare segno: a breve (non lo vogliano gli dèi) qualcuno potrebbe leggere nell’impiantarsi dei troiani in Italia il prototipo di una «sostituzione etnica».