Un bambino con un caschetto in testa ti legge la mano. Una giovane donna seduta a un tavolino tiene una privata sessione di «debriefing» sulla cancellazione dell’arte palestinese dopo il 1948, l’anno della fondazione dello stato di Israele o della «nakba», a seconda dei punti di vista. Un’altra racconta la vita agra delle badanti ucraine incontrate nel corso di una residenza nella regione. Quattro artisti brasiliani, accomunati dal fatto di essere stati oggetti di pesanti censure nel loro paese, si alternano in aneddotiche narrazioni intorno alla Gioconda leonardesca che incombe in una gigantografia alle loro spalle. All’interno di una stanza disadorna lo spettatore solitario si ritrova a lottare con l’immagine che lo schermo gli rimanda e dentro cui è misteriosamente richiamato.

DILATARE il teatro smisuratamente sembra la prospettiva in cui si è mossa l’edizione di quest’anno del festival di Santarcangelo, l’ultima della direzione artistica di Eva Neklyaeva e Lisa Gilardino. Secondo una linea per altro già delineata anche negli anni precedenti. Il prossimo, il festival compie cinquant’anni, un periodo lunghissimo per un’esperienza che non è più soltanto artistica ma investe in pieno il contesto sociale in cui si è inserita. E per l’occasione se ne annuncia un’edizione speciale sotto la cura di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, i due artefici di Motus. Sarà un’occasione giusta per una verifica aperta sul futuro. Il festival è cambiato nel tempo non meno di quanto è cambiato il borgo romagnolo. Si potrebbe dire che c’è di mezzo la stessa distanza che corre dal quasi mitico sindaco comunista Romeo Donati che l’inventò alla giovane Alice Parma, felicemente rieletta per un secondo mandato.

INTANTO conviene fermarsi a quel che appunto ci raccontano le immagini raccolte un po’ disordinatamente. Lo sguardo rivolto allo spettatore inteso come singolo e non come pubblico indifferenziato (ma rinunciando così anche a quell’idea di comunità che a lungo il teatro aveva rincorso) è una traccia troppo insistita per essere casuale. Anche se poi ciascuno l’interpreta a suo modo. Le poetiche «scintille» di Sparks di Francesca Grilli, con quel gruppetto di bambini che in maniera un po’ casuale vanno a prendere per mano gli spettatori che attendono in fila e li portano in un angolo per leggergli la mano dopo essersi calata sugli occhi la visiera del caschetto, sono altra cosa dalla relazione con lo spettatore cercata dalle israeliane di Public movement davanti a un foglio di carta, riempito un poco alla volta delle date e i nomi che testimoniano della ricerca svolta.

DA QUESTO punto di vista la video-installazione dell’olandese Dries Verhoeven, Guilty landscapes, è probabilmente la cosa più sorprendente vista al festival. Per dieci minuti lo spettatore si ritrova da solo davanti allo schermo dove si avanza un’operaia di una malmessa fabbrica tessile. Il rumore assordante delle macchine si attenua quando lei indossa un paio di cuffie, ed è il primo indizio del rispecchiamento in cui è risucchiato, lo spettatore. Visto a sua volta da una telecamera che ne registra e rielabora i movimenti. Col rischio che il meraviglioso tecnologico abbia il sopravvento sulla riflessione «davanti al dolore degli altri» a cui spingerebbero le parole di Susan Sontag ricevute all’uscita. Qualcosa ricorda il gioco di sguardi che si innesca davanti alle Meninas di Velázquez, e si vorrebbe restare più a lungo davanti a quel quadro in cui a tradimento siamo coinvolti.

QUANDO ormai è notte, nella spianata all’aperto dello sferisterio, Michele Di Stefano proietta i danzatori di Mk nelle giravolte vorticose di Bermudas. Quattro movimenti di base insegnati all’inizio da uno di loro – aperto avanti indietro di lato – e poi ripetuti in tutte le variazioni possibili. I danzatori entrano ed escono a folate sulle note sparate ad alto volume di una musica ripetitiva. E ci travolgono di una trascinante energia cinetica. E questo ritrovare il piacere del gesto e del corpo è forse il commiato migliore da Santarcangelo.