Un po’ di tempo fa, quando incontrammo Moreno Vidotto a Salgareda, nella «casetta rosa» sul greto del Piave che fu di Goffredo Parise e che oggi Moreno cura con particolare impegno promuovendo reading di poesia e mostre d’arte, ciò che più lo preoccupava non era l’esondazione del fiume «sacro alla patria». L’ultima, lo scorso anno, a memoria forse la più violenta, ad ogni modo passò, e poco alla volta, con il soccorso di amici e cittadini, si è provveduto ai danni.

Ciò che invece non si riparerà più è il paesaggio che gli sta intorno, ormai compromesso dalle piante di vite per la produzione del prosecco che negli ultimi anni hanno preso il posto della flora spontanea che si trovava poco dietro l’argine.

Così, per famelica voglia di ricchezza, fuori il recinto della «casetta» e del suo piccolo giardino, ora è scomparso quell’«Eden a forma di labirinto» fatto, come scrisse Parise, di «grandi fiori gialli e prati» che sembravano «nascosti dalla civiltà».

Tuttavia ciò che è successo a Salgareda è quanto accaduto in altre parti del Veneto fino al Friuli Venezia-Giulia. Dovunque domina la monocultura dei vitigni per il prosecco: circa ventimila ettari, oltre i diecimila delle colline tra Valdobbiadene, Conegliano e Asolo.

A dispetto della tanto declamata sostenibilità ambientale si è imposto lo sfruttamento incontrollato e intensivo di una vasta area rurale che ormai lambisce i centri abitati, elimina ogni residuo di bosco o terreno incolto, sostituisce le colture tradizionali solo per il massimo profitto. Funzionale ad avvalorare questa logica insensata paradossalmente ci si è messo anche l’UNESCO attraverso la sua organizzazione preposta: ICOMOS (International Council on Monuments and Sites).

Dopo un fallito tentativo dello scorso anno sostenuto dal precedente governo, questa ha dichiarato le colline dei tre centri prima citati «Patrimonio Mondiale dell’Umanità». Ci sarà modo di leggere il Dossier approvato a Baku e conoscere quali integrazioni e nuovi argomenti contiene rispetto a quello precedentemente bocciato, quindi, cosa ha fatto cambiare idea ai ventuno stati membri del Comitato che all’unanimità l’hanno promosso.

Quando poi Pietro Laureano, presidente ICOMOS Italia, tornerà dall’Azerbaijan soddisfatto della sua missione che ha fatto scaldare i cuori dei veneti dopo l’elezione di Cortina per le Olimpiadi invernali, avremo forse la possibilità di capire come si concilia la tutela del paesaggio con l’industrializzazione dell’agricoltura in quei territori fragili a causa delle loro condizioni geomorfologiche, come si armonizza l’attrazione dei «colli» – che il riconoscimento UNESCO rafforza – con un modello di turismo che come si riscontra a poca distanza in Laguna, sembra trovi la sua ragione d’essere solo nei «grandi numeri».

Nell’attesa, però, occorre chiedersi come combinare la tutela del paesaggio con la stabilità delle sue comunità di abitanti. Inoltre fin quanto è trascurabile il laissez-faire di imprenditori e politici che sono riusciti a procurare così visibili danni oltre quelli occultati nelle falde acquifere e nell’aria per colpa dei veleni chimici impiegati nella produzione dei vigneti. È il rapporto secolare tra città e campagna che in quei territori si è alterato al punto che il paesaggio agrario ne è oggi trasfigurato.

In un atto comunale del 1826 riferito a Conegliano c’è scritto che il «colle» era ordinato di «vigne arborate in banche, ma la maggior parte della sua area è occupata da prato, pascolo, boschette e terreno infrutuoso». Ciò che ha sostituito nel giro di qualche decennio un ambiente così multiforme e preservato per secoli dagli «uomini dei campi» (Marx), è certo ancora opera di un nutrito numero di piccoli agricoltori. Questi, però, non rimandano più all’homo faber che praticava con arte la «viticoltura eroica» che gli «esperti» della candidatura hanno voluto far credere. Organizzati in consorzi il loro pensiero va solo agli schèi.

Carlo Cattaneo, più di un secolo e mezzo, definì la città che rinuncia a «disegnare» la campagna, «pompose Babilonie, senza diritto, senza dignità». In un attimo ci siamo caduti dentro.