«Cosa ne pensa delle critiche che gli stranieri rivolgono alla Corea del Nord?». Siamo per le strade di Pyongyang, e il regista spagnolo Alvaro Longoria, scortato da ben tre guide turistiche, ferma un signore di mezza età per porgli questa domanda. Lui sorride, gentile, ma la fronte gli si imperla subito di sudore: sa di dover dare la risposta giusta, quella che ci si aspetta da lui in una situazione come questa. «Penso che dovrebbero venire qui e vedere con i loro occhi la nostra realtà: sul nostro conto si dicono molte bugie». È andata bene, una delle guide annuisce soddisfatta, e la «delegazione» procede oltre nell’esplorazione delle meraviglie di Pyongyang.

Alvaro Longoria voleva visitare da anni questo paese per realizzare The Propaganda Game, il documentario che ha portato alla Festa di Roma, perché – dice – «non restano poi tanti misteri al mondo, e la Corea del Nord è uno di questi». Tutte le vie istituzionali, però, si erano rivelate vicoli ciechi: impossibile perfino entrare dalla Russia. Poi Longoria ha scoperto l’esistenza di Alejandro Cao de Benòs, uno spagnolo come lui talmente innamorato dell’ «ultima roccaforte del comunismo» da essere divenuto col tempo il primo straniero a lavorare per il governo di quel paese, per cui ricopre il ruolo di Delegato Speciale per le Relazioni Internazionali. «Ho scritto ad Alejandro su Facebook – racconta il documentarista – e nel giro di poco tempo ha fatto in modo di farmi dare l’autorizzazione per entrare nel paese».

È cosa nota che i pochi turisti che riescono ad accedere, e a maggior ragione un «uomo con la macchina da presa», non vengono mai lasciati soli e ogni loro spostamento è pianificato con anticipo da speciali guide turistiche che parlano fluentemente in inglese e conducono i visitatori lungo un tour dove spicca il Museo del Partito, in cui un quadro enorme narra la «vittoria» dell’Esercito del Popolo contro gli imperialisti americani. L’intento di Longoria è rendere conto della propaganda che regge il consenso in questa dittatura assoluta, in cui offendere il leader Kim Jong Un è equiparabile, scherza il regista, «ad una blasfemia contro Dio, il Papa e Cristiano Ronaldo tutti insieme».

In Corea del Nord, continua Longoria, «la propaganda è diretta e chiara: le persone si svegliano e sanno già cosa dovranno fare fino al momento di andare a letto». La propaganda, però, è anche quella di cui è vittima il resto del mondo, perché sulla Corea del Nord trapelano notizie pazzesche e non suffragate da alcuna prova: dissidenti interni al partito fatti sbranare da cani feroci, l’ex fidanzata di Kim davanti al plotone d’esecuzione, e così via. Gli stessi esperti di Corea del Nord intervistati per il film danno pareri completamente contrastanti, perfino sull’entità della minaccia militare.

Ma Longoria non vuole assumere una posizione netta: «sarebbe un errore imboccare una risposta allo spettatore, io gli do gli elementi per farsi un’idea di una situazione che resta comunque molto poco chiara». Davanti ai bambini a cui viene insegnato a cantare il loro amore per il caro leader Kim Jong-Un, o alla chiesa cattolica allestita come se fosse un set cinematografico per dimostrare che non esiste persecuzione religiosa – «non c’era il prete, nessuno prendeva la comunione, tutti cantavano perfettamente», ricorda il regista – non è però difficile immaginare dove penda l’ago della bilancia. Cani feroci o meno, il dirigente del partito e zio di Kim accusato di essere un controrivoluzionario, Jang Sung-thaek, è stato giustiziato, e quando a Longoria sono state consegnate delle vecchie registrazioni di parate in onore del dittatore, l’immagine dello zio era stata cancellata: forma perfetta dell’antica damnatio memoriae. Quando però Alejandro Cao de Benòs e l’ambasciatore della Corea del Nord in Spagna hanno visto The Propaganda Game «non hanno reagito male come mi aspettavo», racconta il regista. In fondo, nessuno aveva mai visto un abitante di Pyongyang che cammina per strada mangiando tranquillamente un gelato.